E allora si ricomincia. Il primo giorno dell’anno scolastico per alcuni è già arrivato, per altri è alle porte. Alessandro D’Avenia, in un fondo di domenica scorsa su Avvenire, parlava dell’attesa che precede questo fatidico giorno, “investito della speranza che un’estate possa aver cambiato tutto”. E aggiungeva che già dopo le prime cinque ore di scuola quell’attesa sarà sostituita “dalla ruvida certezza che nulla è cambiato”.
La provocazione di D’Avenia mi ha messo in movimento, mi ha spinto a chiedermi con quale attesa inizio l’anno scolastico. Per quanto mi riguarda, più che da un’attesa parto da una certezza: so che la realtà mi verrà incontro. Sarà gradevole o sgradevole, splendida o opaca, probabilmente sarà piena di sfumature, ma con quella realtà che sono i miei studenti dovrò comunque fare i conti. Questo fatto è un po’ la croce e la delizia di noi insegnanti. Un professore non può mai vivere tranquillo nella routine borghese di un lavoro da impiegato. O meglio, può anche farlo, ma a patto di perdere del tutto la propria identità.
La realtà che mi verrà incontro sarà quella del ragazzo che non ha voglia di studiare, perché a casa non trova nessuno e perché nessuno lo sostiene nella sua fatica; o quella del ragazzo che invece ha l’ansia da prestazione, perché la famiglia gli sta troppo addosso; o ancora quella della ragazza che è piena di problemi e che non riesce proprio a concentrarsi sul libro che ha davanti; o di quella che non riesce a comunicare all’interno della sua classe e si trova isolata e fa fatica a varcare la soglia dell’aula, ogni mattina. Non è tutto negativo: c’è anche la splendida realtà di chi vive con serenità la scuola, che costruisce, che non è “parcheggiato” sui banchi. C’è l’esempio di una mia ex studente, che al termine dei cinque anni ha pubblicato sulla sua pagina di Facebook alcune foto scattate in classe, sottotitolando: “Spesso la gioia di vivere ho incontrato”. Il campionario è molto ricco.
Ma in ogni caso la realtà sarà sempre grande ed imprevedibile, non ci vuole proprio stare nei nostri schemi mentali, nelle nostre previsioni. Dovremo guardarla, starle davanti, vivere la sfida che ci lancia: quella di un ennesimo viaggio, di una nuova avventura verso terre sconosciute.
Dovremo cercare di entrare in rapporto con quei cuori che ci sono stati affidati. Sarà un incontro, bello e terribile, e le materie e i contenuti che proporremo saranno come il trampolino di lancio per un volo da fare insieme, alla ricerca di un senso, spesso il grande assente nella scuola di oggi.
Mi rendo conto che tutto questo è lontano mille miglia dalla impostazione tecnicista e burocratica della scuola italiana. Lo dico con cognizione di causa, reduce da ben due seminari sul “curriculum verticale”. E’ il buon anno che ci è stato propinato. E noi tutti lì, a definire le competenze essenziali e a metterle per iscritto, come se non sapessimo molto bene che la scintilla che cambierà o segnerà un’esistenza, che metterà in moto la voglia di studiare e di capire nei nostri studenti, si accenderà un giorno, in modo gratuito, del tutto imprevisto, quando meno ce l’aspettiamo, magari improvvisando, magari deragliando dai binari del programma.
Come se non sapessimo che saremo ricordati non tanto e non solo per i programmi che abbiamo svolto, non per gli obiettivi che abbiamo raggiunto, ma soprattutto per la verità, la profondità, il coinvolgimento con cui ci saremo posti di fronte ai nostri ragazzi.
“Non è questione di effetti speciali e di lavagne multimediali – concludeva D’Avenia -. Ma di persone”. Ecco: dovrò essere una persona per stare davanti alla realtà di persone che mi verranno incontro. Se si trattasse solo di “contenuti essenziali”, potremmo anche starcene tutti a casa, davanti a un PC.