Dopo aver visitato la mostra al Meeting di Rimini  “Imprevedibile istante: giovani per la crescita” e aver letto il relativo libretto, mi sono interrogato su quale sia la vera urgenza da affrontare nelle nostre università. La voce degli studenti mi è parsa molto chiara e conferma quanto dovrebbe essere ovvio, ma non lo è affatto, nei nostri atenei: gli studenti sono i protagonisti, i veri “utenti”, insieme alle loro famiglie, del sistema universitario. Questa urgenza sinteticamente la posso definire come la necessità di un rapporto serio tra adulti-maestri  e ragazzi-allievi e mi sembra che quando questo rapporto viene banalizzato o subordinato ad altri interessi il mondo universitario degenera, si complica.



Un indizio di questa criticità l’ho trovato, leggendo il libretto, nell’intervento del responsabile del Career Service del Politecnico di Milano, un eccellente ufficio di orientamento e di placement in termini di offerte lavorative. Viene affermato che l’impostazione di questo centro di orientamento al lavoro non si concentra sullo studente e sulle sue esigenze, ma è ribaltata a favore di una impostazione che predilige la ricerca delle aziende, cioè delle occasioni di lavoro. Questo può essere parzialmente valido in un settore di riferimento come quello ingegneristico e per di più a Milano, ma concettualmente è l’indice della anomalia del sistema, pur all’avanguardia in termini di efficienza. Tale anomalia è la stessa che lo studente registra spesso nelle aule di lezione dove può insegnare anche il migliore professore, ma lui è e rimane solo un numero, o di fronte alla valanga di esami perfettamente organizzata che deve sostenere, ma senza un metodo perché nessuno si è preoccupato di insegnarglielo, oppure di fronte alla scelta di studiare all’estero dove tutto si risolve nel compilare un modulo ecc…



Il deficit evidenziato in tutti gli interventi riportati nel libretto e alla mostra è in una mancanza di rapporto tra ragazzi e adulti, tra uno studente e un maestro, tra una comunità di studenti e una comunità di docenti. In mezzo agisce una burocrazia con le sue procedure che risponde asetticamente alle esigenze degli uni e degli altri.

Guardando le esperienze  dei collegi universitari di merito (autentiche eccezioni nel contesto universitario) e del Career service di Bologna (che il sottoscritto ha introdotto a Bologna nel 1996, dopo averlo visto funzionare in Inghilterra a Cambridge e Oxford) l’impostazione adottata è stata quella di partire dalle esigenze degli studenti. Porre agli studenti la domanda “chi sono”, e quindi “cosa vorrei fare” e “come muovermi, con chi, dove”, “quali azioni devo innescare” è decisivo sia per i talenti e sia per chi ha più difficoltà. Prima di tutto si deve provocare lo studente, perché deve muoversi il suo desiderio per poter comprendere cosa gli interessa. Di fronte ai talenti e alle eccellenze questa dinamica si amplifica e diventa vincente per loro e per il sistema (non basta evocare il merito per saperlo gestire).



Nella mostra presentata al Meeting ciò che mi ha colpito sono state le testimonianze della scuola superiore, dove il rapporto tra adulto e allievo è emerso in tutta la sua forza in quanto volto alla sollecitazione della capacità critica dei ragazzi, della loro ragione, dei loro interessi, della loro curiosità e quindi ha stimolato la loro responsabilità. Un maestro è più di un insegnante e non si ferma a trasmettere delle nozioni o delle regole, fa appassionare al sapere, non chiede solo di imparare, ma sollecita una verifica e una responsabilità.

Ora se questo è l’ideale ed è anche il desiderio del corpo studentesco universitario, il punto è che cosa lo permette anche in termini di sistema.Nella m ia esperienza io vedo che la comunità della conoscenza studenti/docenti, nelle varie forme, è possibile già nel sistema universitario, documentata sia nelle esperienze raccontate dalla mostra, sia nei collegi, dove i risultati sono rilevanti in termini di crescita e di successo degli studenti (ma i collegi sono pochi in Italia, dove appena ottomila studenti vi partecipano) e sia attraverso l’esempio di tanti docenti che concepiscono la propria missione fino in fondo, nonostante le condizioni critiche e il contesto in cui devono agire.

Cosa quindi si può proporre in termini programmatici operativi al sistema universitario per permettere a chi ha desiderio di realizzare ambiti di comunità universitaria vera?

Io condivido le proposte della Fondazione per la Sussidiarietà che non sto qui a richiamare (per le quali rimando alla lettura del libretto), ma ci sono due ipotesi immediate che bisognerebbe avere il coraggio di lanciare a tutti i livelli:

1. concedere la libertà agli atenei di aumentare le tasse di iscrizione con la condizione che una percentuale di queste vada ad incrementare la somma delle borse di studio percepite dai non abbienti e il corrispondente obbligo dell’Agenzia delle entrate di effettuare un accertamento reale ed immediato sul reddito dei beneficiari. Questo oltre a ristabilire una equità per cui chi è abbiente paga per il servizio che riceve, costringe gli atenei a considerare i suoi studenti “clienti” rendendo conto loro dei servizi che offre.

2. trovare il meccanismo più adeguato perché i corsi di studio universitari e quindi gli esami da sostenere diminuiscano. Se uno studente deve impegnarsi ogni anno a sostenere 60 crediti, ma spezzettati in decine di materie come farà ad approfondire le più importanti? Come potrà andare all’estero? Come allargherà i suoi orizzonti?

Guardando ciò che si muove in università ci sono più fatti di quelli che pensiamo per poter sperare in un cambiamento.