Uscire dalla scuola media superiore a 18 anni? La discussione eviterebbe gli scogli dell’ideologia o della politica politicante (se il Pd dice qualcosa, il Pdl “deve” dire l’opposto, e l’Udc “deve” stare al centro, la Lega “deve” dire altro), se esplicitasse coerentemente e fino in fondo la ratio profonda della proposta. Ci sono molti modi per esplicitare quella ratio: ci deve essere concordanza tra le tappe dello sviluppo intellettuale, emozionale e relazionale dei ragazzi e la scansione curricolare e ordinamentale-amministrativa dei cicli; la scuola non può essere un mondo-a-parte rispetto all’universo reale della società e della storia degli uomini; il ragazzo deve essere al centro dell’azione educativa e delle istituzioni educative. Il ragazzo e niente altro.



Certo, i sistemi educativi europei fanno parte dell’universo reale, occorre tenerne conto. La stragrande maggioranza dei Paesi europei fa uscire i ragazzi a 18 anni, con significative eccezioni quali la Germania, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, la Slovenia. Per quanto riguarda la formazione professionale alta, la tendenza generale è verso l’allungamento a diciannove o anche a vent’anni. Pertanto, l’anno di uscita, di per sé, non migliora né peggiora la qualità del percorso. Ciò che conta è, appunto, la corrispondenza tra il curriculum e le tappe dello sviluppo umano. In Finlandia si esce a 19 anni, eppure la sua scuola è la prima o la seconda al mondo per qualità. Né si potrebbe argomentare a favore dell’abbreviazione del percorso a 18 anni, solo partendo dallo stato della finanza pubblica. Che certamente risparmierebbe danaro, togliendo un po’ di cattedre.  Ma l’ultimo Rapporto dell’Ocse “Education at a Glance” segnala che l’Italia investe già un po’ meno della media. Ciononostante, lo spende malissimo. Né, d‘altronde, è accettabile la posizione uguale e contraria dei sindacati che invocano maggiori spese e respingono la diminuzione delle cattedre, senza porsi minimamente il problema della ratio sopra detta.



Dunque, la domanda è: l’attuale assetto curriculare e ordinamentale corrisponde alle necessità oggettive (che vengono identificate, non dai ragazzi! ma dal sistema socio-economico-culturale-politico) e ai bisogni educativi dei ragazzi? La risposta è decisamente no. La divaricazione tra ragazzo e sistema, tra apprendimento e insegnamento, tra scuola e mondo reale tende ad allargarsi già a partire dagli ultimi anni della scuola di base, si aggrava drammaticamente tra la prima e seconda media, continua lungo il primo biennio delle superiori. Per chi resta, dopo una dispersione del 18% e più, l’ultimo anno delle superiori, tra i 18 e 19 anni di età, diventa il più noioso e insopportabile. I ragazzi vi rimediano con l’autogiustificazione delle assenze. E’ un anno perduto. Il sistema è stato costruito nell’Ottocento e ritagliato come un vestito attorno ad un tipo di ragazzo, che oggi non esiste più.



Si pensi alla Scuola media, oggi scuola secondaria di primo grado, concepita nel 1864, rilanciata da Bottai nel 1939, realizzata nel 1962. Non è necessario essere laureati in Psicologia dell’età evolutiva per comprendere che il ragazzo degli anni ’50 del ‘900 non è più quello di questi anni. La rottura puberale accade mediamente attorno agli undici anni/dodici anni, particolarmente anticipata nelle femmine. Accudimento a volte iperprotettivo, stimoli culturali e percettivi più intensi, cibi e ormoni in quantità, nonché l’immancabile Facebook, Twitter e via internettizzando… stanno generando un’antropologia giovanile nuova.

L’età dell’adolescenza, già effetto “artificioso” delle nuove condizioni della produzione e del lavoro della seconda metà dell’Ottocento (si pensi alle leggi che giustamente hanno proibito il lavoro infantile), oggi viene anticipata e perciò dilatata all’indietro, per un verso, e, per l’altro artificiosamente prolungata in avanti verso una giovinezza, che i sociologi fanno durare fino oltre i trent’anni. Ma il sistema scolastico resta immutato. Il che aumenta l’effetto di alienazione che ormai questa scuola-fabbrica proto-industriale sottoproduce e che si manifesta in varie forme, spesso anomiche. Alienante per i ragazzi e per i loro insegnanti. Il sistema scolastico persevera nell’infantilizzazione degli adolescenti e nell’adolescentizzazione (mi sia perdonato il termine!) prolungata dei giovani. Pertanto non ce la si può cavare con la diminuzione di un anno, lasciando immutato il numero di materie e di ore e, soprattutto, la parcellizzazione proto-tayloristica della didattica e degli spazi.

I discorsi degli ultimi dieci anni (si veda il Dpr 275/1999) sulle competenze-chiave, sulla didattica per competenze, sul superamento della rigida unità di classe e della corrispondenza biunivoca tra classe di età e classe scolastica sono rimasti nel limbo della retorica e di qualche generoso tentativo, subito stroncato o isolato per via amministrativa e per cecità culturale. La personalizzazione è ancora al di là da venire, per la semplice ragione che il ragazzo è costretto dal sistema educativo(?)-amministrativo sul letto di Procuste, in cui “i corti” sono allungati a forza e “i lunghi” amputati, esattamente come tramanda il mito greco.

Questo conservatorismo di fondo, che vede coinvolte le famiglie, la società civile, i mass-media, la cultura, i sindacati, i partiti e, ovviamente, il sistema burocratico-amministrativo, spiega perché i tentativi di portar fuori i ragazzi a 18 anni dalla scuola siano falliti. Si può procedere in tre modi: anticipare a cinque anni di età l’entrata nel sistema; far saltare la scuola media, aggregandone un pezzo alla scuola di base e un altro al ciclo secondario superiore; ridurre a quattro anni la scuola secondaria di secondo grado. Luigi Berlinguer, dopo aver verificato che la prima soluzione non incontrava il consenso della sinistra e dei sindacati, optò per la seconda soluzione: 7 anni di scuola di base e 5 anni di scuola superiore (Legge 30 del 10 febbraio del 2000). Ma, a quel punto, si trovò contro interessi trasversali offesi, che il centro-destra rappresentò. Salvo poi, dopo che ebbe vinto le elezioni del 2001, tentare a sua volta di anticipare a cinque anni e di scandire in modo diverso il ciclo di base e il ciclo della secondaria di primo grado. Poi, con Fioroni-Gelmini, tutto si è richiuso. Ora Profumo ci ritenta, forse… (Anche qui si nota una certa divaricazione tra le parole e i fatti).

Intanto, però, si sono aggravati i fenomeni di disagio. La scuola di base è stata investita da un’onda di disciplinarizzazione precoce, insopportabile per i bambini; la scuola media è sempre di più il buco nero del sistema; il biennio superiore produce dispersione altissima. L’ultimo anno delle superiori è diventato una specie di parcheggio, in attesa di uscire.

Ciascuna delle soluzioni ipotizzate comporta, nell’immediata applicazione, degli inconvenienti. Quella di Berlinguer sollevava la cosiddetta “onda anomala”. Quella dell’anticipo a cinque anni si espone a obiezioni fondate dei pedagogisti e delle famiglie. Quella della riduzione a quattro anni della scuola media superiore lascia insoluto il problema, particolarmente grave nella scuola media, della divaricazione antropologica tra ragazzi e sistema educativo e sottrae un anno prezioso, allorchè lo sviluppo intellettuale e la consapevolezza di sé dei ragazzi avrebbero bisogno di abbondante cibo intellettuale. Tutta la questione è, infine, surdeterminata dagli schieramenti politici, che fanno uso politico spregiudicato, a puro fine di consenso immediato, degli interessi offesi. E’ noto che ogni partito ha alle spalle una propria constituency sindacale e associativa.

Personalmente, credo che la soluzione di Berlinguer fosse la migliore. Ma senza un processo molto spinto di personalizzazione e di flessibilizzazione del sistema, senza una carica di libertà e di autonomia delle scuole per sperimentare una nuova organizzazione della didattica delle competenze (riduzione di materie, aree disciplinari, laboratori) che spezzi il rigido assetto di materie, tempi e metodi e per attui nuove forme di reclutamento dei docenti per scuole e reti di scuole e di aggiornamento sul campo…, senza tutto questo non si andrà lontano.

Personalizzazione: in parole povere, uno a 12 anni è ancora bambino, un altro è già adolescente; uno “si perde” per un anno e poi riesplodere all’improvviso. Uno può uscire a 17 anni, un altro a 19. Dipende da quanto tempo gli serve per conquistare le competenze chiave, debitamente certificate nel suo portfolio formativo e certificativo. Questa libertà di assecondare i ritmi di apprendimento e di maturazione umana della libertà dei ragazzi non è possibile in un sistema accentrato burocraticamente, che avvolge il sistema educativo come un sudario.

E qui torniamo al punto: qual è la forza in grado di smuovere e di aprire delle brecce nel blocco storico conservatore del Paese? Ribadisco un’idea già espressa: solo sul campo della scuola militante si può aggregare un tale soggetto. La politica ha già dimostrato ampiamente in questi decenni di non essere in grado. Solo da quel campo può arrivare il combustibile per quelle minoranze riformiste e creative che sono presenti anche nella politica. Purchè la politica accetti umilmente di fermarsi a fare il pit-stop.

Leggi anche

SCUOLA/ Ben venga lo "svarione" delle 36 ore (se serve a cambiare tutto)SCUOLA/ Se il nuovo piano di Renzi dimentica le riforme a costo zeroSCUOLA/ I quattro pilastri che aspettano le riforme di Renzi