Il governo tecnico presieduto da Mario Monti ha di fronte a sè pochi mesi di vita, prima di entrare nel vivo della campagna elettorale. Deve decidere, allora, come utilizzare al meglio questi pochi mesi. O seguendo la strada dei soliti governi di fine legislatura, oppure, proprio perché “tecnico”, vincolato solo al “principio di verità”, cioè al “principio di realtà”, prendere delle decisioni simili al “decreto salva Italia” sugli aspetti centrali della vita del Paese. Un governo, in poche parole, che non essendo interessato agli effetti-annuncio di una campagna elettorale quasi permanente com’è la politica italiana, abbia il coraggio di lasciare un segno significativo nella storia del paese.
Ebbene, la decisione di seguire, modificandola in qualche suo strumento, la strada del concorso nazionale per assumere giovani docenti, mi pare una strada che non tiene conto della “scuola reale”. Perché uno dei problemi della scuola di oggi riguarda proprio la cattiva selezione, in passato, dei docenti. Ma vi è ora il decreto sul “sistema di valutazione”, si potrebbe aggiungere. Ma un decreto a costo zero, si sa che valore ha, nella realtà.
Nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il ministro Profumo sintetizza bene le sue convinzioni: dobbiamo tornare al merito, puntando sui giovani, concorsi biennali, niente graduatorie, ecc.
Non ho letto però, nelle sue considerazioni, il punto fermo maturato negli anni novanta come primo criterio per la qualità reale delle scuole: l’autonomia secondo responsabilità. Nessun cenno, poi, al nuovo Titolo V della Costituzione, “nuovo” si fa per dire, perché è del 2001, ed ad oggi ancora lettera morta. Peccato, perchè le sue buone intenzioni in realtà non sono altro che una riproposizione di un vecchio modello. L’unica vera novità è lo stop definitivo alla considerazione della scuola come ammortizzatore sociale, quello che ha generato l’eterna illusione che un posticino a scuola, prima o poi, c’è per tutti. Al di là del merito. Le scuole tutte ancora oggi stanno pagando le conseguenze di corsi abilitanti, di ripetute sanatorie, di una mancata selezione dei docenti migliori.
Buona quindi l’idea che l’assunzione debba passare solo attraverso i concorsi. Il vero nodo però non è questo, ma chi debba organizzarlo questo concorso. In forma centralizzata o in forma sussidiaria? Da uomo di scuola, che è chiamato alla responsabilità di un liceo con duemila studenti, 180 docenti, costretto a vedere dunque in faccia la realtà per quella che è, io non credo più alla gestione centralizzata del governo della scuola. Lo ricordo: il Miur, come agenzia del lavoro, è secondo al mondo dietro solo al Pentagono.
L’assunzione, cioè, per concorso va calata nella realtà. La pratica migliore è il controllo incrociato, in loco, anche degli atti concorsuali. Secondo una logica sussidiaria. Non solo: mentre i concorsi mettono in evidenza per lo più le conoscenze disciplinari dei docenti, nella realtà fondamentali sono le attitudini e le competenze di insegnamento. Quelle conoscenze, cioè, sono necessarie, ma non sufficienti. Bastano le poche novità di cui si parla, nelle procedure concorsuali? Più in generale, la scuola deve riscoprire il proprio “servizio pubblico”, cioè la cultura dei risultati, non delle sole intenzioni.
Profumo nell’intervista rivendica giustamente la centralità della scuola. Il problema è il come, con quali risorse, in vista di che.
Un esempio? Profumo dovrebbe mettersi d’accordo con Patroni Griffi, il quale vuole cancellare gli uffici scolastici provinciali inserendoli negli “sportelli unici” delle prefetture. Una follia. Perché le scuole non sono una dependance della burocrazia statale. È un ritorno al più bieco centralismo.
È un bene, dunque, puntare sui giovani. Sapendo bene che i “precari storici” stanno comunque pagando i tanti errori del passato. Ma un punto di svolta, prima o poi, doveva arrivare. Se, in poche parole, un docente a 50 anni è ancora precario, una qualche domanda se la dovrà pure porre.
Puntare sui giovani oggi (docenti che hanno meno di 30 anni sono delle vere rarità) è dunque un bene. Ma non basta. Ci vogliono un nuovo stato giuridico, una governance adeguata (che fine farà il testo ora in Commissione VII alla Camera, cioè l’ex Aprea?), delle risorse chiare, assieme al recente decreto sul sistema di valutazione.
Al ministro Profumo mi verrebbe da dire: non possiamo più continuare ad inseguire le buone intenzioni dei ministri pro-tempore. Ci vogliono fatti, decisioni, cioè responsabilità. Cioè la buona politica.
A volte penso che l’unico rimedio all’immobilismo italiano potrebbe essere un bel viaggio per l’Europa. Basterebbe cioe fare un bagno europeo: vedere come nei Paesi del nord Europa sono gli enti locali che gestiscono le scuole, capire come avvengono le valutazione in itinere, e non solo in ingresso come da noi, del docenti, dei presidi, degli ata.
In Italia, basterebbe, lo ripeto, attuare il titolo V della Costituzione. Rimasto sino ad oggi lettera morta. Ma basterebbe dare un’occhiata anche alla buona politica scolastica attuata nelle province autonome di Trento e Bolzano.
Conoscendo la realtà dal di dentro, non credo più ai maxi-concorsi. Per qualsiasi professione. Preferisco invece tutte quelle iniziative che garantiscono la stretta vicinanza tra ruoli professionali e servizio agli utenti. In altri termini, non credo più al valore taumaturgico dello Stato e delle sue propaggini amministrative, centrali-ministeriali o periferiche-regionali.
Basterebbe consentire con legge dello Stato, una volta stabiliti gli standard nazionali ed un ruolo “terzo” del corpo ispettivo, alle singole regioni, di indire concorsi pubblici, aperti a tutti, ma vincolati alla copertura dei posti della sola regione prescelta, senza quelle furbate già troppe volte denunciate. Sussidiarietà significa rimettere al centro anche nel mondo della scuola gli enti locali, cioè la democrazia della partecipazione, e non più lo Stato-Tutto.
Più in generale, si tratta di capire sino in fondo, è sempre bene ricordarlo, cosa cosa voglia dire “servizio pubblico”. Mentre in passato significava “servizio statale”, nella nostra “società aperta” non può che significare attenzione fortissima verso gli utenti del servizio, cioè la cultura dei risultati. Cultura del servizio, dunque.
In questi termini, è evidente l’ipocrisia che domina anche la scuola italiana. Se è vero, come è vero, che nelle scuole tutti sanno chi sono i bravi docenti (la grande maggioranza), e tutti sanno che i concorsi di vecchio stampo non selezionano i migliori insegnanti, perché continuare su questa strada?
Un concorso ordinario, gestito dal Miur, non farebbe altro che riprodurre all’infinito i soliti mali, anche se darebbe una chance ai giovani in gamba, immolati alla speranza di agguantare un posto (in totale 12mila) su 300mila aspiranti. Non è una questione di quiz sbagliati, o di buste più o meno sottili. Quella è sì una forma-sostanza, necessaria ma non sufficiente. Perché la scuola reale ha altri parametri.
Ancor più in generale, non ha più senso un maxi-apparato come il nostro Miur. Noi dobbiamo uscire dai vecchi vizi assistenzialistici, quelli che hanno sino ad ora impedito di pensare alle riforme della scuola non a partire dal meglio per i nostri studenti, ma solo sui compromessi sugli organici. Il peccato originale, anche della scuola, è presto detto: è la realtà che si deve conformare alle norme, o non sono piuttosto le norme che devono registrare e poi incanalare il dinamico principio di realtà verso nuove prospettive di “convivenza”, cioè di “condivisione democratica”? Cioè la democrazia reale.
L’autonomia scolastica deve diventare, in questo contesto, la vera cerniera tra cittadini e istituzioni: perché non pensare a reti locali di scuole che mettono a bando posti di docenti, presidi, ata, con una commissione mista scuola-territorio? Un piccolo passo in avanti, in questo senso, lo troviamo nel testo della spending review.
Le scuole, in poche parole, devono diventare “scuole delle comunità locali”, cioè scuole dello Stato inteso, però, come incarnazione in loco delle istituzioni, non più staccate, lontane, autoreferenti, come è oggi. In più: noi dobbiamo fare in modo che i giovani in gamba scelgano la scuola come professione, come prima opzione, e con stipendi adeguati, se giudicati bravi.
C’è il rischio reale di scuole ed enti locali che, in stile mafioso, imbroglino le carte? Qui deve essere chiaro il ruolo del corpo “terzo” degli ispettori, ed i cittadini vanno poi aiutati perché possano pretendere qualità e trasparenza anche del servizio scolastico.
Ha ancora senso regalare tanti cento e lode a maturità in alcune regioni, se poi queste votazioni non sono accompagnate da una reale preparazione, da competenze accertabili? Ha ancora senso vedere tanti giovani con titoli di studio senza mercato del lavoro? Perché non intervenire più concretamente nel reale orientamento scolastico, cosa che solo le reti di scuole possono realizzare, con un Pof condiviso e multi-facce?
Non hanno più senso le obiezioni del tipo: “ma le scuole garantiranno un cattivo servizio, se lasciate agli enti locali…”. Allora verrà fuori la differenza tra buona scuola e cattiva scuola, e prima o poi saranno gli stessi cittadini che si rifiuteranno di mandare i propri figli in queste scuole. Ognuno, come è giusto, sia un po’ artefice del proprio destino. Cioè la sana etica della responsabilità personale e sociale. Che vale per tutti, per il Nord come per il Sud.
I docenti quindi andranno assunti a livello regionale e locale, con un sistema di valutazione non solo all’inizio della carriera, ma in itinere. Lo stesso per i presidi e per il personale non docente.