Già con interventi precedenti ho cercato di mostrare in che senso, e in che cosa, il pensare la storia da parte dei bambini non possa che essere assai diverso da quello degli adulti. Abbiamo visto come, non spiegandosi una realtà umana come l’esito di una situazione precedente, essi “non vedano”, in sintesi, il nesso storico di causa-effetto; ossia il vero e proprio perno del ragionare storico adulto. Ma poi, ancora. Riflettiamo su quei concetti “generali” di cui lo storico si serve per dare ordine, senso, coerenza alle informazione che raccoglie e alle interpretazioni cui giunge, come quelli – indico a caso – di società, evoluzione, crisi, economia, sistema politico, civiltà, classe, gerarchia sociale, ecc. Sono tutti strumenti essenziali del suo leggere ed esporre la storia, quale che sia il genere di storiografia cui egli si dedica. Ma per un bambino? Non ci spiegano forse gli psicologi dello sviluppo – o non può osservare empiricamente chiunque – che fin verso i 12 anni bambini e ragazzi non usano e non pensano i concetti generali astratti, come appunto sono quelli? Se è così, un discorso storico costruito su quel tipo di concetti risulterà vuoto di senso e di interesse per i bambini; tutt’al più suscettibile di essere imparato a memoria e subito dimenticato. Con quale risultato, poi, di gusto e passione per la storia, ciascuno intende.
Eppure, provate ad aprire un sussidiario. Già dai titoli dei capitoli, come “La civiltà egizia”, “La democrazia ateniese”, “La crisi della repubblica romana”, ecc., e a scendere poi nel testo (dai classici elenchi di “fonti scritte, orali, iconografiche” ecc, o ai richiami, senz’altro, ai “tre punti essenziali: cronologia, contemporaneità, durata”), o alle varie “mappe concettuali” (appunto) per sintetizzare i “quadri civiltà”: a dominare sovrani sono proprio concetti astratti. Tal quale, riassunto in pillole, quel che offrono i manuali delle superiori. Per non dire dei poveri bimbi di prima e seconda costretti a imparare e a (fingere di) usare concetti di rarefatta astrattezza, come “durata, contemporaneità”, ecc; nella un po’ patetica pretesa che ciò sia un “prerequisito” per avviarsi alla storia…
Parlo solo della storia? No, evidentemente. Perché in qualsiasi ambito disciplinare – in italiano, in geografia … ovunque – i sussidiari, fateci caso, presentano la stessa caratteristica: di puntare in primo luogo e il prima possibile a far acquisire concetti generali astratti: che per i bambini non sono strumenti di pensiero e di comprensione! E se quel che sto dicendo ha un fondamento, sta qui un nodo di fondo, e drammatico, per la nostra scuola.
Ma restiamo alla storia. Quale può essere il modo di pensarla specifico dei bambini? Un punto di partenza a mio avviso imprescindibile (ma in genere invece pochissimo considerato) sta nel dato clamoroso dell’enorme attrazione che su di loro, fin da piccoli, esercita la dimensione del passato (o meglio, del “tempo altro”). Si pensi solo a come le parole “c’era una volta” siano una formula magica che basta ad affascinarli; o alla frase rituale per introdurre i giochi di ruolo: “facciamo che eravamo”, al passato imperfetto… E’ un elemento “strutturale” del loro modo di essere, che fa tutt’uno con il carattere prevalentemente narrativo del loro pensare. Perché questo è il dato essenziale, di fondo: i bambini leggono, si spiegano la realtà “per storie”. Non occorre neppure citare, come già ho fatto, Bruner e Steiner.
Ascoltate un bambino che spiega qualcosa: “C’era questo… e poi questo… poi lui ha detto…”. E’ un continuo ricorrere a uno svolgersi nel tempo. Sono “storie” che si traducono e “vengono lette” attraverso l’immaginare: un pensiero dunque a un tempo narrativo e immaginativo. Si rifletta in quanta parte il giocare, ossia per i bambini lo sperimentare se stessi e il mondo, vuoi con un’automobilina, con la bambola o con i giochi di ruolo, sia in realtà un raccontarsi e un immaginare insieme, o un raccontarsi per immagini, o un immaginare attraverso racconti. Non sarà su questo fondamento che potrà e dovrà basarsi un rapporto vivo e autentico con la storia?
Così, la necessaria fase preparatoria nelle prime classi potrà puntare a esercitare e potenziare la capacità di pensare per storie facendo vivere i bambini in un’atmosfera di storie (fiabe, racconti, la loro storia personale): dunque, fra l’altro, praticando, usando le categorie di tempo, e non mirando a un inutile, o dannoso, formalizzare i concetti di tempo. (A proposito: a parlare i bambini imparano studiando i concetti di soggetto e predicato, o invece parlando?). A partire di qui ci si potrà gradualmente accostare alla storia. Magari anche passando attraverso l’esperienza di udire e vivere e raccontarsi e drammatizzare miti: cioè in qualche modo sperimentando quelle forme di spiegazione del mondo attraverso racconti, appunto, che erano proprie del mondo antico, e così entusiasmanti per i bambini di 8 o 9 anni. Ma poi, la storia vera e propria di quei popoli: che sarà viva, bella, coinvolgente se proposta non con astrazioni ma come uno svolgersi di storie di persone “vere”, e di ambienti, di mentalità, di costumi; presentate in forme tali da consentire ai bambini di farsene immagini viventi.
E in questo sarà essenziale il raccontare e il proporre immagini da parte dell’insegnante, ma insieme il cercare, l’esplorare, il ricostruire anche artisticamente da parte dei bambini, il loro impersonare personaggi e scene della storia studiata; il loro “imparare facendo”, insomma. Una storia di persone con cui stabilire, immaginandole, un rapporto umano, e in cui anche trovare modelli cui guardare con ammirazione, o deprecazione: e sappiamo quanto essenziali per i bambini siano i rapporti umani e i modelli cui riferirsi. Ma anche, così, una storia profondamente vera: di persone che, come è nella realtà storica e umana (e troppo spesso dai manuali non traspare), si sono trovate a operare scelte difficili o drammatiche fra opzioni niente affatto scontate. Ciò che i bambini comprendono benissimo. Una storia, svolgimenti, infine, di cui i bambini sono in grado di darsi spiegazioni anche profonde, purché non si pretenda che utilizzino le categorie di causa-effetto, come si è detto; ma invece quella di scopo. A loro infatti risulta chiarissimo che una persona agisca in un certo modo perché ha quei certi desideri, quelle finalità, quelle intenzioni: è così che – osservatelo – essi si spiegano i comportamenti delle persone con cui sono in contatto.
Che un insegnare storia con questi criteri sia possibile lo mostrano ormai molti esempi di pratiche scolastiche. Ma vorrei infine segnalare un esempio straordinario: quel capolavoro che è la Breve storia del mondo di E. H. Gombrich (Salani) è scritto proprio con questi criteri. Offre una continua serie di esempi di come si può proporre la storia secondo il pensiero dei bambini. E i bambini lo leggono, o lo sentono leggere, con inesausto entusiasmo.