Con la recente bozza di decreto sul Sistema Nazionale di Valutazione prende avvio per la prima volta in Italia una vera e propria “filiera” che si propone la cura del sistema, ed è motivata dalla necessità di porre un freno alle diseguaglianze molto forti esistenti in Italia fra scuola e scuola, fra i livelli degli apprendimenti abissalmente difformi all’interno del territorio nazionale, alle forti discrepanze anche rispetto ad altri paesi dell’area europea. Il problema è innanzitutto politico, legato al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, e oggetto di supervisione anche da parte dei paesi membri dell’Unione europea (vedi i famosi 39 punti di Olli Rehn).
Tuttavia l’immagine restituita dai dati, come esplicitamente ricordato anche dai rapporti Invalsi, è solo parziale. L’ ottica del “miglioramento” riflette un’immagine negativa della scuola italiana, ma di per sé non è del tutto fedele: ampie zone dell’Italia hanno risultati scolastici di ottimo livello, e i nostri universitari all’estero portano competenze estremamente raffinate, basta vedere chi lavora ai massimi livelli al Cern di Ginevra. L’eccellenza andrebbe curata almeno quanto le zone di sofferenza.
Inoltre la rilevazione di livelli di apprendimento in aree ben circoscritte (comprensione del testo, lingua, matematica), riferite peraltro alle competenze richieste dall’Europa nel core curriculum di base cioè alla strumentalità necessaria alla “cittadinanza” del vecchio programma De.Se.Co., non può certo esaurire il bisogno educativo. Il nostro made in Italy e quasi tutti i settori in cui eccelliamo richiedono un ventaglio assai più variegato di attitudini, teoriche e pratiche. L’investimento che una società decide di fare sui suoi giovani è sempre espressione di una scelta culturale prima che di una strumentalità. È bene quindi ricordare che il Sistema di Valutazione fa parte di un insieme più vasto, che comprende l’opzione di fondo espressa dalle Indicazioni per i curricola del primo e del secondo ciclo, più ampie dei quadri di riferimento delle prove, ma comprende pure la ripresa e la riqualificazione delle università, e non ultima la valorizzazione delle zone di efficacia del sistema scolastico (sempre molto difficile da attuare praticamente).
Il Sistema di Valutazione, per la parte che gli è assegnata, funziona con tre organi e produce quattro azioni. Gli organismi sono: l’Invalsi (capofila), l’Indire, il corpo ispettivo. Le azioni disegnano una vera “profilassi”:
A) autovalutazione delle istituzioni scolastiche, basata sui dati del sistema informativo del ministero, sulle rilevazioni sugli apprendimenti e sulle elaborazioni sul valore aggiunto che verranno restituite dall’Invalsi; essa consente l’elaborazione di un primo “rapporto di Istituto” da redigere su un format comune a tutte le scuole;
B) valutazione esterna: i dati Invalsi permettono di individuare sulla base di indicatori prefissati le istituzioni nelle situazioni più critiche, alle quali inviare esperti in grado di supportare l’osservazione esterna e l’autovalutazione interna; lo scopo per le scuole è quello di definire piani di miglioramento;
C) azioni di miglioramento: dovrebbero basarsi sul supporto dell’Indire o di altri soggetti (università, enti di ricerca, associazioni professionali e culturali);
D) rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche: il traguardo è l’accountability, o comunicazione delle scuole agli utenti dei propri risultati e delle proprie pratiche di miglioramento: questo passaggio, solo suggerito dal recente rapporto 2012, diventa uno dei punti cardine del sistema.
Il pericolo di qualunque procedura è che le sue fasi finiscano per essere troppo automatiche per cogliere le dinamiche reali delle scuole. Inoltre in un sistema articolato e pieno di azioni concomitanti come la scuola è ben difficile individuare le variabili realmente incidenti di un cattivo funzionamento. Si sa che la individuazione certa dei cosiddetti “fattori malleabili”, quelli cioè correlati significativamente con l’efficacia, sono stati un problema anche nelle ricerche più solide dal punto di vista metodologico e più studiate dai ricercatori come il progetto Pisa di Ocse. Invano ci si affanna per avere certezze sull’effetto sui risultati di fattori singoli come le bocciature, o le metodologie collaborative, o il controllo dei compiti a casa da parte dell’insegnante: è più facile che sia significativo un fascio di fattori connessi fra loro, che diventano tutti insieme il segnale di una macrocategoria come la “responsabilità in ordine alle scelte didattiche”, o di macrocategorie strutturali come quelle studiate da Woessman (sopra a tutte l’autonomia scolastica). Così il pericolo di un Sistema nazionale di miglioramento è che proprio le azioni di miglioramento, al di là delle migliori intenzioni di chi le promuove, incidano su dettagli sostanzialmente minori e quindi inadatti a produrre risultati significativi sull’insieme, e illudano che possa esistere una relazione di causa-effetto fra un intervento migliorativo e la soluzione di un problema, complicato anche da condizioni di contesto.
L’impressione è comunque quella di uno sforzo per mettere finalmente alla scuola italiana, dopo tanto buonismo, un po’ di ansia da prestazione, o meglio il più nobile achievement press, che fra gli indicatori internazionali considerati predittivi di buoni risultati è uno dei più interessanti. Le scuole in cui il “raggiungimento del risultato” è al centro delle scelte e delle attenzioni hanno risultati migliori: sembra un’ovvietà, ma sappiamo tutti che l’ovvio è diventato quanto di più improbabile, e che alla scuola nuoce più l’indifferenza in cui è lasciata, il pressapochismo, la noia che non la carenza di computer. Inoltre, come è emerso dalle prime ricerche internazionali, è significativo che anche lo stesso fatto di essere sottoposti a valutazione esterna produca miglioramento, a prescindere dalle azioni migliorative, specialmente in associazione con ampi margini di autonomia nelle scelte di gestione. Lo si vede anche da noi dal diminuire dei comportamenti “opportunistici” nello svolgimento delle prove. In questo senso qualunque azione venga praticamente messa in atto dagli ispettori o dall’Indire un effetto benefico dovrebbe produrlo.
Restano alcuni problemi, strettamente legati alla relazione causale fra interventi e effettivo miglioramento. L’Invalsi per esempio dovrebbe curare la selezione, la formazione e l’inserimento in un apposito elenco degli esperti dei nuclei per la valutazione esterna da mandare nelle scuole. Sulla base di quali requisiti? Per parte sua l’Indire cura il sostegno ai processi di innovazione centrati sulla diffusione e sull’utilizzo delle nuove tecnologie, ma si sa che la tecnologia non sostituisce le buone idee, nonché interventi di consulenza e di formazione in servizio: anche per la consulenza e la formazione servono idee su che cosa risulta più efficace: cioè serve un po’ di ricerca educativa.
Tale genere di ricerca è sempre più declinante in Italia. L’esperienza delle Ssis non è stata capitalizzata ma cancellata per i suoi difetti interni, gli Irre hanno subito la stessa sorte; a mio parere anche perché non si riesce in Italia a valutare fra 20 cose esistenti quali sono le 7 che funzionano da potenziare e mandare avanti, e allora – per mancanza di responsabilità verso quello che succede − per non subire le 13 manchevoli si abolisce tutto. Il problema del miglioramento non mi pare risolvibile solo con una buona procedura all’interno di una filiera oliata, se non ci sono idee capaci realmente di infondere nuova linfa nella scuola. Le idee di solito vengono dai giovani, e voglia il cielo che ne arrivino nelle nostre scuole, armati della grinta connaturata all’età; inoltre le idee vengono dalle associazioni disciplinari e professionali, che sono vere fonti di aggiornamento perché partono dal bisogno e attingono al vissuto.
Due esempi. Molti insegnanti cominciano a rendersi conto che le “competenze” (anche quelle richieste dalle prove Invalsi) non sono banali: ma le “relazioni logico-semantiche nel testo” non rientrano in nessuna branca dell’italiano tradizionale! Qualcosa si muove a partire da un problema: così professori che hanno insegnato una vita in un certo modo cercano delle strade alternative, che mettano maggiormente in moto la ragione e la riflessione degli studenti e contrastino uno studio ripetitivo. È l’esperienza che sto facendo con la “bottega di grammatica” dell’associazione Diesse, che avrà un suo secondo step, dopo un lavoro durato tutto l’anno scolastico passato, nella Convention dell’associazione in ottobre.
Un secondo esempio viene dal mio incontro con l’Associazione Italiana Dislessia, il cui punto di forza sta in questo: un insegnamento più mirato, capace di trovare nuove vie per l’acquisizione di conoscenze e di valorizzare le grandi potenzialità cognitive dell’alunno dislessico, avvantaggerà non solo i portatori di DSA, ma tutti gli studenti. Quello che si sperimenterà con loro sarà un grimaldello per far riflettere sulla didattica tout court, in modo da passare dall’astrattezza, che spesso grava senza motivo lo studio scolastico, all’astrazione, che è invece un salto cognitivo importante e degno dell’uomo. È l’esperienza che sto facendo con i molti insegnanti che provano a cambiare metodo di insegnamento per la scrittura o per altri campi legati alla padronanza linguistica.
La speranza è che, pur in tempi di ristrettezze economiche o forse proprio per questo, alle associazioni professionali e disciplinari venga riconosciuto il contributo che danno, e quindi siano sostenute e valorizzate come braccio sussidiario del miglioramento della scuola italiana.