La lettera autobiografica dal titolo provocatorio Una professoressa al macero, pubblicata dal quotidiano Il Manifesto lo scorso 19 settembre, è un grido di dolore che non può lasciare indifferenti. Nel leggerla non posso fare a meno di riaprire il bel testo “I professori” di Aldo Ettore Quagliozzi, raffinato cultore della ricerca dell’arte di educare, edito da Andrea Oppure nel 2006 che, nel capito sesto, cita ampiamente l’opera di un’altra insegnante bibliotecaria, Francesca Giusti. E’ del 1998: “Come è possibile parlare di un lavoro amato, che ha dato vita, allegria, un ritorno culturale e affettivo e, al tempo stesso, accostarlo di continuo ad angoscia, schizofrenia, panico, desiderio di fuga?“. La maggior parte dei docenti come lei hanno raggiunto l’età della pensione mantenendo la loro identità professionale.
Invece nella missiva di Rosa Marcinello, bibliotecaria da cinque anni per problemi di salute, accanto alla descrizione dell’esordio della malattia: “la sola idea di presentarmi in classe mi atterrisce, sono larvale ed inizio ad assentarmi per periodi anche lunghi; credo davvero di impazzire, giorno dopo giorno, poi di colpo ritorna la parola, il buonumore e tutte le facoltà temporaneamente perse” e dopo aver rievocato le sue amare vicende di professoressa di lettere, laureata col massimo dei voti, è espressa tutta la rabbia di vedersi demansionata al lavoro di segretaria. Con argomentazioni che non sono del tutto pertinenti, tuttavia, dichiara di non voler ricoprire un ruolo che non ha scelto e che potrebbe svolgere chiunque abbia conseguito il solo titolo di scuola media. Assolutamente condivisibile la preoccupazione espressa, a parte l’illusione ottica secondo la quale afferma che solo alcune parti sociali menzionate abbiano veramente a cuore la sua vicenda umana.
Peccato che nessuna di esse si sia mai occupata e preoccupata di sollecitare il governo a tutelare la salute del personale docente di ogni ordine e grado, anche della sua scuola pubblica che – secondo lei – rischia la demolizione. Il testo desta qualche dubbio nonostante vi si legga un copione paradigmatico di sofferenza per la perdita di quell’identità lavorativa per la quale aveva studiato, come tutti gli altri docenti inidonei. Dopo anni di insegnamento, la malattia l’ha spenta. Quel disturbo bipolare diagnosticato anche a lei come a tanti personaggi illustri che cita nell’accorata lettera, le impedisce di svolgere l’attività che ha scelto e amato profondamente.
Le sarebbe accaduto se avesse svolto altri lavori? Lo stress lavoro-correlato potrebbe aver contribuito a slatentizzare il disagio che ora vive e l’ha resa ultimamente incapace anche dell’indispensabile capacità di critica e giudizio. E’ evidente il desiderio della professoressa di stare a scuola in modo diverso rispetto al passato trascorso in cattedra, ma pur sempre utile e molto valido anche se meno riconosciuto.
Chi sceglie la professione docente e dopo anni di lavoro si ammala al punto da dover lasciare le classi per diagnosi di inidoneità temporanea o permanente all’insegnamento, mantiene l’idoneità ad altre mansioni educative e non diventa automaticamente un robot o un pezzo da rottamare. Perché dunque demansionarli facendoli diventare segretari amministrativi e per di più tappabuchi? Credo che nessuno più del personale attualmente inidoneo sarebbe capace di “iniettare” dosi di passione educativa alle nuove generazioni di insegnanti. Chi sta preparando il concorso a cattedre ha mai ipotizzato di valorizzare le loro quasi eroiche esperienze?