I bambini non chiudono finché non concludono. Non così i grandi che invece si affrettano a gettare lastre di pietra sulle questioni che non vogliono affrontare e desiderano solo coprire e camuffare. Ossia chiudere senza concludere. 

Fra i tanti contenuti del film, accanto alla lucida presentazione di una scuola ostaggio del politically correct e del dramma personale dell’emigrazione, forse questo è proprio il tema principale, il vero fil rouge nella sceneggiatura. Stiamo parlando di “Monsieur Lazhar”, film del canadese Philippe Falardeau, tratto da una pièce di Evelyne de la Chenelière che è stato presentato nel 2011 al Festival di Locarno e candidato all’Oscar 2012 come miglior film straniero. È la storia di un rifugiato politico algerino che si propone come insegnante in una scuola di Montreal dove è appena accaduto un fatto terribile. Martin, la maestra, si è impiccata in classe, il giovedì mattina, poco prima che il suo alunno Simon entrasse in aula per lasciare il cartoncino del latte su ciascun banco, come usanza locale. È proprio Simon, non del tutto estraneo alla vicenda personale di Martin, assieme alla sua migliore amica, che ne condivide il segreto, a vederla penzolare dal soffitto in una livida mattina di neve.



La storia che si dipana su quattro poli – i bambini, il corpo docente storico, i genitori e il supplente Bachir Lazhar – ruota tutta attorno al suicidio della maestra, sui bambini che fra loro ne parlano, lo sognano, lo rappresentano nei disegni e sui grandi frettolosi di chiudere la questione. 

Gli adulti infatti non ne vogliono parlare, tranne l’unica titolata a farlo: la psicologa, per la quale la consegna del silenzio non vale in nome di un approccio meramente specialistico che l’autorizza ad affrontare la questione coi minori. Tale approccio – nel film, come nella vita vera – finisce per sottrarre i diversi soggetti alla loro competenza individuale, inducendoli ad abdicare alla possibilità di aiutare in prima persona i bambini, farsi loro compagni di strada. I grandi sono solo preoccupati (e smarriti) di un supposto trauma che tale resterà solamente fintanto che non passerà sotto giudizio. Il vero trauma è infatti un accadimento non giudicato e non elaborato, che resta in sospeso, galleggiante in un limbo dove si rende inafferrabile, imprendibile e ultimamente indicibile.



Il film ci ricorda come non sia facile, posto che sia davvero possibile, mettere a tacere il pensiero di un bambino; sottratto alla possibilità di giudizio – che vuole dire farsi un’idea al riguardo di ciò che è accaduto – tornerà fuori negli incubi, nelle fantasie, nei molteplici rimaneggiamenti della realtà che ne seguiranno.

Si tratta in fondo della questione se sia il caso o meno di proteggere i bambini dalla realtà, anzi della questione stessa di come i bambini si pongono di fronte al reale. Loro, infatti, osservano, ricordano e tentano di trovare nessi e ragioni di ciò che accade; a differenza di come a volte li pensiamo noi, sono sempre in presa diretta col reale, curiosi di conoscerlo e al tempo stesso di farlo proprio. Il film mette in evidenza proprio tale concezione distorta che abbiamo dell’infanzia e lo sguardo malato e ammalante che rivolgiamo a loro.



Monsieur Lazhar, anche a motivo della sua storia personale, si muove invece secondo buon senso, fidandosi del suo fiuto che gli permette di raccogliere le questioni che i bambini gli rimandano e che tutti vorrebbero chiudere al più presto presi da una visione analgesica del reale. Non pretende di avere soluzioni preconfezionate lui, non sa già come andrà a finire; si lascia piuttosto provocare e dentro il rapporto – fatto sempre di coniugazioni e declinazioni, dettati e problemi cui mai si sottrae – permette che i bambini concludano, soprattutto Simon col segreto terribile che custodisce nel suo cuore. 

La conclusione dei bambini, ma estendiamolo pure, le conclusioni dei bambini lungi dal chiudere aprono sempre a nuove possibilità, consentono di pensare un futuro senza le ombre e senza i fantasmi del passato, permettono di rilanciare e riprendere.

Tornassimo a riuscirci anche noi, sarebbe una buona notizia per tutti. Forse abbiamo bisogno anche noi di un amico come Bachir Lazhar, un amico che non censura niente e non ci chiude le domande. Un amico interessato a ciò che pensiamo.