Entro in una quinta linguistico. È una classe nuova, per me, mi è stata assegnata quest’anno. In programma ci sono due ore di latino, le ultime due, dalle 12 alle 14. Il fatto mi preoccupa: non può funzionare la solita oretta in cui si fa conoscenza della classe e si presenta brevemente il programma. Mi devo inventare qualcosa. E allora decido di dare ai ragazzi un assaggio di certi autori che faremo durante l’anno.
Propongo due belle pagine: la prima dall’epistola a Lucilio in cui Seneca parla degli schiavi e se ne esce con quell’eccezionale e lapidario “nulla servitus turpior est quam voluntaria”. La seconda da Quintiliano, II libro dell’Institutio oratoria, dove si tratteggia la figura del bravo maestro. Leggo in latino e traduco. Mi guardano con interesse e seguono in silenzio: sono il quinto docente di latino in cinque anni di liceo (prodigi del sistema scolastico italiano)! Sono ragazzi che hanno subito una straordinaria discontinuità didattica. E io gli parlo del bravo maestro, perché sono i più titolati a dirmi se Quintiliano ha ragione o no, loro che hanno conosciuto un vero e proprio campionario di insegnanti.
L’attacco è già di per sé eccezionale: “Sumat igitur ante omnia parentis erga discipulos suos animum, ac succedere se in eorum locum, a quibus liberi tradantur existimet”. Il maestro deve essere come un padre. Qui c’è già tutto: siamo molto di più che erogatori di nozioni, siamo educatori, punti di riferimento, e spessissimo andiamo a colmare vuoti che le famiglie da sole non riescono più a colmare. Spesso siamo rimasti solo noi a chiedere qualcosa a questi ragazzi, a metterli di fronte all’impegno, alla fatica, mentre tutti intorno si sono arresi alle scorciatoie, alla vita facile (che è solo una tragica illusione).
A partire da questo presupposto fondamentale, da questa “paternità” del maestro, segue, a cascata, tutta una serie di suggerimenti. Alcuni mi sembrano di un’attualità inaudita, dopo quasi duemila anni: “Non austeritas eius tristis, non dissoluta sit comitas”. Sono i due estremi, negativi, che ancora fanno danni. Da una parte c’è il docente che è oppressivo nei suoi modi, che crea un distacco assoluto. Ma questo tipo è ormai in minoranza. Abbiamo avuto una sfornata di docenti (specie gli ex sessantottini) che invece hanno impostato tutta la loro relazione su una “dissoluta comitas”, una sregolata familiarità. Come c’è stata e c’è la moda del “padre-amico”, così c’è stata e c’è quella dell’“insegnante-amico” (in fin dei conti il celebre film L’attimo fuggente non faceva che riproporre questa immagine contrapposta all’altra). Quintiliano è di una lucidità incredibile: il primo atteggiamento è negativo perché genera “odium”; il secondo lo è altrettanto, perché genera “contemptus”, disprezzo. I ragazzi che ho davanti confermano tutto. Sì, ne hanno fatto esperienza, Quintiliano ha proprio ragione.
“Minime iracundus – dunque – nec tamen eorum quae emendanda erunt, dissimulator”: il fatto sacrosanto di non doversi abbandonare all’ira non comporta allo stesso tempo il “passar sopra” a quanto deve essere corretto nei ragazzi. Non comporta la pessima attitudine alla dissimulazione, al far finta di non vedere, per non affrontare il doloroso compito della correzione. Magari autoilludendosi che i ragazzi sono capaci di autocorreggersi (e che quindi, in fin dei conti, non ci è richiesto tanto).
Ci vogliono gli attributi, per insegnare, per essere un maestro. A volte bisogna alzare la voce quando non vorremmo, minacciare addirittura, essere “duri” quando invece ci piacerebbe che tutto andasse da solo per il verso giusto. La società che ci affida i figli (e che ci critica perché “lavoriamo poco”) è quella stessa società che non ha più il coraggio di dire “questo sì, questo no”. Noi non possiamo esimerci dal rischio e dalla fatica di prendere posizione.
L’importante è che i ragazzi non percepiscano il nostro odio nei loro confronti. Quintiliano può sembrare qui esagerato, ma non lo è affatto: quale professore non ha mai provato un sentimento di odio verso quello dell’ultimo banco che non la smette di fare il cretino? Eppure nemmeno questo possiamo permetterci: siamo chiamati a superarci, a trascenderci, per non rischiare che quel ragazzo si chiuda e perda ogni residua motivazione.
C’è ancora tanto, nel brano di Quintiliano: la semplicità nell’insegnare; la disponibilità alla fatica (perché per essere semplici ed efficaci bisogna lavorare, prepararsi le lezioni); la disponibilità di rispondere volentieri a chi fa domande e, allo stesso tempo, quella di stimolare quelli che non domandano mai; il non essere né troppo stretto, né troppo largo dei voti, perché entrambi gli atteggiamenti fanno male ai ragazzi. E, soprattutto, proporre il bene e tendere al bene. Almeno provarci. Essere veri. Perché gli uomini ascoltano più volentieri quelli che ammirano.
Uno studente mi chiede: “Ma lei si ritiene un bravo insegnante?”. Rispondo, con Seneca, che vorrei esserlo e che non finisco mai d’imparare ad esserlo. Una ragazza chiede: “Prof, ma i suoi colleghi non le hanno mai lette queste cose?”. E un’altra: “Ma questo brano lo sta leggendo per la prima volta?”. È perché ha visto che mi confrontavo con quelle parole, che mi entusiasmavo, che ero direttamente coinvolto, come se quelle parole fossero del tutto nuove per me. E in effetti era proprio così, perché non ci si può confrontare con la grandezza dell’animo umano senza provare un contraccolpo.
L’ultima domanda, così ingenua, mi ha dato una grande soddisfazione. In fin dei conti m’interessava proprio questo: che delle parole antiche risuonassero come nuove e vere, adesso, per me e per i miei ragazzi.