2012, fuga dalla scuola. Sembra la riedizione – rivista e corretta – di un celebre film degli anni ’80 (1997: fuga da New York, di John Carpenter), invece è il titolo dell’articolo di Valentina Santarpia pubblicato il 3 settembre sul Corriere della Sera. Non è un film, dunque, ma una realtà drammaticamente vera e preoccupante: nel 2011/12, nel nostro paese, 52mila ragazzi (uno su cinque) si sono iscritti a una scuola secondaria superiore ma poi non hanno portato a termine l’anno scolastico. Una percentuale impressionante, che nella graduatoria “nera” dei paesi Ue, ci colloca alle spalle solo di Malta, Portogallo e Spagna.



A dispetto delle linee europee, che avevano previsto entro il 2010 di scendere al di sotto del 10% di abbandoni scolastici (“Parametri di riferimento” del Consiglio europeo dei ministri dell’istruzione, 2003) in Italia la media nazionale di early school leavers (i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che, dopo aver conseguito la licenza media, non hanno conseguito né un diploma né una qualifica professionale e non frequentano alcun corso di formazione) in questi anni è scesa pochissimo e continua ad essere abbondantemente al di sopra della media europea (14,1%).



Inutile appare il tentativo di ricondurre ad una spiegazione univoca tale situazione, generata da una molteplicità di fattori che hanno diversa natura; due tra tutti i fattori, tuttavia, appaiono come cause più determinanti, anche perché avvalorati da dati oggettivi.

1.  In Italia l’inserimento nel mondo del lavoro avviene relativamente più tardi rispetto agli altri paesi europei, e ciò a causa di una ideologia che continua a considerare la permanenza forzata nel percorso di istruzione scolastica come garanzia di crescita, educazione e formazione della persona. È evidente, invece, che per tanti ragazzi sarebbero più coinvolgenti e utili percorsi propedeutici all’inserimento nel mondo del lavoro, con ampie caratteristiche operative/laboratoriali, già in uscita dalla secondaria di primo grado. In questi ultimi anni, infatti, se da una parte è cresciuto il tasso di scolarità superiore (oltre 90 iscritti alla scuola secondaria di secondo grado ogni 100 giovani in età 14-18 anni), dall’altra si è registrato un impressionante aumento della disaffezione allo studio, all’impegno scolastico e alla disciplina, da cui circa il 12% di abbandoni a conclusione del primo anno (senza iscrizione all’anno successivo) ed un ulteriore 3,4% alla fine del secondo anno.



Quanti di questi ragazzi “dispersi”, trovandosi ancora in obbligo formativo, accedono a percorsi di formazione professionale? Sicuramente solo una parte, come ci conferma l’Istat, anche perché probabilmente la proposta di questo tipo di percorso andava fatta prima, evitando così di farla erroneamente apparire come un ripiego per chi proprio non ce la può fare… 

Autorevole e pertinente, al riguardo, appare il giudizio del capo dipartimento del ministero dell’Istruzione, Maria Grazia Nardiello: “Dove la formazione professionale funziona davvero, come in Veneto, la dispersione è quasi inesistente. I ragazzi hanno bisogno di avere a che fare con l’esperienza diretta del mondo, con la pratica, mentre in Italia c’è una cultura troppo classica, tutti scelgono il liceo senza considerare seriamente le alternative. Se seguissimo l’esempio della Germania, dove la formazione diversa da quella umanistica viene valorizzata, potremmo migliorare decisamente il livello generale di crescita del Paese”. Chiaro, no?

2.  C’è poi un secondo aspetto che, pur se meriterebbe un approfondimento maggiore, vale comunque la pena almeno introdurre: in Italia continua a persistere, oltre ogni ragionevolezza e a dispetto di qualsiasi dato di fatto (educativo/formativo o economico che sia), un sistema scolastico iperstatalista, che si riempie la bocca di parole come “autonomia”e “responsabilità”, ma che in realtà è gestito interamente dall’alto e non lascia spazio, fra le altre cose, allo sviluppo di una sana competizione fra scuole statali e non statali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: demotivazione del corpo docente, concepito come professione impiegatizia dedita prevalentemente all’espletamento di funzioni burocratiche; debolezza identitaria della proposta educativa/formativa delle scuole; prevalenza dell’esigenza di sopravvivenza dell’apparato rispetto a quella di formazione/educazione delle nuove generazioni, etc….

Come ha sottolineato Isabella Bossi Fedrigotti, sempre sul Corriere della Sera, a commento dell’articolo citato in apertura, “i tassi più alti di fedeltà scolastica si registrano in Slovenia, Slovacchia e Repubblica Ceca” (rispettivamente 5%, 4.7% e 4,9% di abbandoni). Guarda caso, si tratta di paesi usciti dallo sfascio dei sistemi iperstatalisti comunisti, nei quali oggi lo stato, finanziando le scuole non statali (all’85% in Slovenia, al 100% in Slovacchia e Repubblica Ceca) sostiene attivamente la libertà di scelta educativa, consentendo alle famiglie e agli studenti di scegliere il percorso educativo più corrispondente alle proprie convinzioni educative e formative senza oneri aggiuntivi. Percorsi educativi e formativi  concepiti e realizzati in contesti motivati e motivanti, come dimostra anche l’esperienza di tante scuole paritarie italiane.

Non sarà sicuramente, questa, la motivazione esclusiva della fedeltà scolastica, ma ne è senz’altro una ragione importante. Perché allora, anziché continuare a girare il coltello nella piaga con infinite lamentele sullo stato della nostra scuola, non si inizia davvero a imitare le migliori esperienze europee? Formazione professionale iniziale e libertà di scelta educativa: due ricette semplici ed efficaci. La strada per ripartire esiste, percorriamola.

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