Caro direttore,
forse la crisi farà giustizia di un’opinione radicata nel senso comune (quello che spesso copre il buon senso) e ci farà finalmente consapevoli del fatto che un ragazzo che intraprenda un percorso di studi di carattere professionale o tecnico non è deprivato in nulla. A patto che, naturalmente, il percorso in questione sia buono, cioè si proponga di metterlo in grado di fare un certo lavoro – esistente – e questo obiettivo persegua, prioritariamente e fattivamente.
Lo scorso secolo voltava le pagine dei suoi ultimi calendari quando le scuole italiane erano bersagliate a tamburo battente dallo slogan per cui “l’importante è imparare a imparare”. E quanti autorevoli banditori, anche del mondo imprenditoriale! Certo, perplessità e sospetti, pur all’interno di una situazione economica che pareva ancora florida, sorgevano, insieme a un senso di vacuità, di fungibilità universale, a un prepensiero un po’ raggelante: “Ma non servono più giovani che sappiano fare qualcosa? Forse non servono più giovani…?” E così, mentre i percorsi tecnico-professionali perdevano carattere ed allievi, licealizzandosi, come si dice, i licei si gonfiavano di iscritti e si stemperavano in insipido generalismo, “per adeguarsi al cambiamento dell’utenza” o “per allargare l’utenza”, a seconda dei casi.
Tuttavia anche quello slogan un po’ di verità, seppure parziale e degradata, la conteneva. Più grave però era il difetto, l’equivoco di fondo: certo che è importante imparare a imparare, ma si impara a imparare solo imparando… qualcosa. La caduta del complemento oggetto fu fatale. Comportò il ripiegamento della scuola in un’autoreferenzialità che crebbe in misura direttamente proporzionale all’infittirsi delle iniziative di “apertura”, allo sfarinarsi di curricula e programmi in un polverio di stimoli culturali, di istanze genericamente formative. La caduta di quel complemento oggetto imprigionò gli allievi in una autistica, infinita, formazione di se stessi. Non perché non si proponessero sguardi sul cosiddetto mondo reale, al contrario sempre più numerosi e accattivanti, ma perché erano sguardi, alla fine, diretti al soggetto.
Invece. Se è vero che non può darsi scuola senza un orientamento prioritario al soggetto che apprende, guai a dimenticarsi che quel soggetto è persona, che, per la sua natura irriducibilmente relazionale, cresce solo se sposta lo sguardo da sé a qualcosa fuori di sé. Forma se stesso solo se gli chiedi di guardare ad altro, di amare altro, di dimenticarsi per altro.
Perché il timore alla fine è sempre le stesso, quello di sequestrare un giovane virgulto all’interno di un particolare, rubandogli la possibilità di navigare per il vasto mondo e di prendere contezza di tutte le possibilità. Lo si vuole aperto, curioso; mentre la curiositas, lo sapevano bene gli antichi, non è sapienza: la curiositas porta Lucio a trasformarsi in asino, nel romanzo di Apuleio.
Anche qui, invece. Solo l’implicazione di tutta la persona ( intelligenza, energie, costanza, volontà, creatività) in un particolare le permette di guadagnare un orizzonte totale; al di qua di quella porta stretta c’è il vagare nevrotico o indifferente da un particolare all’altro.
Luigi Berlinguer da ministro, affermò che ci voleva un po’ di lavoro manuale anche al liceo classico: ancora una volta, poco più che uno slogan − suscettibile, se fosse stato raccolto, di applicazioni devastanti (e un po’ grottesche, invero, negli anni in cui questo tipo di attività veniva definitivamente eliminata dalle scuole medie inferiori e svalutata in quelle professionali); e tuttavia, adesso che quasi nessuno tra i ragazzi, nonché svolgerli, nemmeno vede più svolgere dagli adulti quei tanti lavori che fino a qualche decennio fa accompagnavano la vita delle famiglie, anche questa boutade acquista un sapore diverso, lascia balenare il suggerimento di qualcosa di necessario, seppure malinteso e stravolto.
Perché il lavoro? Perché ha un fine che non sei tu, perché va fatto tutto, perché va fatto con esattezza. Non occorre dilungarsi oltre sulla prima caratteristica. La seconda e la terza meritano due parole. Il lavoro va fatto tutto, per questo è inesorabilmente serio. Se il mio consiste nel chiudere ogni sera dieci porte, chiudendone nove non avrò fatto quasi tutto: non avrò fatto nulla, perché la parzialità lo vanifica. Il lavoro va fatto con esattezza, per questo, di nuovo, è inesorabilmente serio. Se preparando un cibo che richiede venti ingredienti dimentico il sale, non l’ho fatto quasi perfetto, l’ho rovinato.
Ecco, senza sperimentare questa dimensione, nessuno può crescere davvero. E dunque, quale “lavoro” proponiamo agli studenti dei licei?
Non sto pensando all’ennesimo progetto in cui, sfrondando qua e là qualche disciplina, si inserisce una settimana o due in cui anche i liceali “provano” il lavoro. Se si “prova” non è lavoro, è un diversivo come un altro, altro pascolo per la curiositas. Tanto più che la domanda, alla fine, non è: “L’hai fatto bene?” ma “L’hai trovato interessante?”, non “È utile ciò che hai fatto?” ma “Pensi che ti sia stato utile?”.
Non voglio dire che nella vita non capiti di “provare”, ma è vera “prova”, come il senso pieno del termine suggerisce, se nasce da un rischio in cui la persona gioca molto. Si può anche scoprire di avere sbagliato strada, ma riconoscerlo e cambiare, se è stata vera prova, costa.
Forse c’è un compito che è affidato agli studenti dei licei, un compito da svolgere per il bene di tutti: consentire il passaggio alle nuove generazione di una tradizione culturale. Ma allora occorre chiedere che vi si impegnino davvero, e che vi si impegnino per tutti. Cioè che facciano un lavoro per altri, che lo facciano tutto, che lo facciano con esattezza. E questo forse si può insegnare. Magari chiedendo di progettare, studiare, prepararsi, per realizzare una qualche forma di comunicazione culturale a beneficio di altri.
Magari tornando a valorizzare la distinzione tra verifica e compito, che non sono la stessa cosa. La verifica controlla come sta andando un processo, un compito è un lavoro. Non è solo una questione terminologica: il problema è che il compito è diventato verifica a poco a poco, insensibilmente, nelle menti di tutti, a mano a mano che si è appannata la coscienza della sua natura di prodotto, pensato, costruito, rifinito, originale. La parola compito, infatti, è propria di attività per le quali le abilità esecutive sono necessarie, ma non sufficienti, dove occorre l’implicazione di tutta la persona, che vi gioca una sintesi sempre diversa, personale e creativa.
Magari smettendo di sfrondare e alleggerire i programmi, di ridurre lo studio a inciampo occasionale e di minarne così la stessa ragion d’essere. Se si accetta che il quadro culturale sia sempre più sommario e sbrindellato, a quale compito specifico potremo spronare uno studente? Se nella mente degli adulti, prima che in quella dei ragazzi, leggere un autore invece di due o tre, studiare un filosofo invece di due o tre è uguale perché tanto è il metodo che importa – se, insomma, il passaggio di consegne di cui sopra non è importante per nessuno, perché fare un liceo se non per rimandare scelte più stringenti?
Sono solo osservazioni sparse ed approssimative, davvero senza pretese, un modo per condividere una domanda.