Il mese scorso, prima che il governo di Mario Monti venisse sfiduciato, l’Italia ha firmato un Memorandum sul potenziamento dell’istruzione tecnica e professionale con ministri o sottosegretari all’istruzione di altri sei paesi europei (Spagna, Portogallo, Lettonia, Estonia e Germania). Per il nostro Paese l’azione è stata coordinata e diretta dal sottosegretario Ugolini che proprio su queste pagine aveva commentato la prima intesa europea finalizzata alla formazione e all’occupazione dei giovani, siglata nel vertice di novembre a Napoli.
Azioni strategiche come quelle messe in opera vanno indubbiamente nella direzione giusta. Eppure, la sensazione complessiva è più o meno come quella che si prova quando l’attaccante della tua squadra sta correndo, libero e palla al piede, verso il portiere avversario, ma l’arbitro purtroppo ha già fischiato il fuorigioco. Proverò di seguito a motivare questa personale perplessità.
La prima domanda è questa: dieci anni fa si mise mano a una riforma complessiva dell’architettura della scuola secondaria di secondo grado: due canali (quello liceale e quello tecnico professionale, in cui confluiva di fatto anche la formazione professionale in diritto-dovere di istruzione e formazione, laddove esisteva) e in più la possibilità di assolvere il diritto-dovere anche attraverso l’apprendistato. Era la cosiddetta Riforma Moratti. Molte cose erano lasciate in sospeso, molte solo abbozzate (l’apprendistato in diritto-dovere di istruzione e formazione, ad esempio); probabilmente si creavano, nell’immediato, più problemi di quelli che si andavano a risolvere. Ma c’era il quadro complessivo, e almeno due grandi linee prospettiche: l’equipollenza del valore culturale ed educativo tra percorso liceale e quello tecnico, nella distinzione dell’articolazione, degli snodi e della struttura (cinque anni fissi il primo canale, tre più il quarto più il quinto anno il secondo) e l’idea di fondo che l’istruzione e la formazione (costituenti – lo ripeto – un percorso equipollente a quello liceale) potevano essere esperite non solo a scuola (o meglio, non solo all’interno di percorsi gestiti dalla scuola).
Oggi, ce lo testimoniano le parole del sottosegretario, si affrontano i medesimi problemi e si individuano le medesime soluzioni. Ma sono passati dieci anni. E se nel 2003 non erano pochi gli insegnanti che guardavano alle linee prospettiche della riforma almeno come a una possibile risposta alle questioni educative e professionali che si ponevano loro davanti, oggi, dopo lo smantellamento per via amministrativa della struttura della riforma, dopo il riordino dei cicli scolastici e la scomparsa dell’autonomia, in questo strano tempo di crisi e di ridimensionamento delle aspirazioni, la parola riforma fa venire l’orticaria. Eppure, ho il sospetto che sia l’unico contesto possibile perché le soluzioni prospettate (poli, Its, apprendistato, alternanza, prove tecniche di “sistema duale”, etc.) costituiscano risposte sistemiche (cioè che realizzano, in forme particolari, obiettivi e fini dell’intero sistema scolastico), e non solo un tentativo marginale di intervento su questioni eccentriche rispetto al “fuoco” della scuola stessa.
La seconda questione riguarda la formazione professionale, l’ambito in cui naturalmente si collocano i temi al centro dell’accordo tra Italia e Germania da cui siamo partiti. Cos’era il secondo canale, se non il superamento della divisione inopinata (e probabilmente incostituzionale…) tra istruzione e formazione professionale? Non costituiva forse l’elemento del sistema scolastico dove, almeno potenzialmente, avrebbe potuto nascere, dalla “crossed fertilization” tra istituti tecnici, istituti professionali e Cfp, una vera e propria scuola tecnica capace di rispondere, grazie a percorsi flessibili e articolati, all’esigenza di un ragazzo di confrontarsi da subito con un mestiere e un ambito di attività e cultura lavorativa, farlo crescere dal punto di vista umano, culturale e scientifico, dargli la possibilità di scegliere tra il lavoro, la formazione tecnica post diploma e i percorsi universitari (superando peraltro alcune rigidità esistenti nello stesso modello tedesco)? Il luogo dove rafforzare concretamente il contatto e la collaborazione – l’alleanza, potremmo dire – tra le scuole e le aziende, nel prendersi carico del percorso di crescita degli allievi, sotto l’aspetto professionale e sotto quello culturale?
Su questo punto mi sembra si siano sommate le debolezze di tanti attori: dell’amministrazione scolastica centrale e di diverse (non tutte: alcune proprio non si sono viste…) amministrazioni regionali che, nonostante alcuni sforzi encomiabili (come la cd. sperimentazione Gelmini-Formigoni in Lombardia), non hanno portato a un modello “forte” e attrattivo; delle autonomie scolastiche, prese tra la percezione dei problemi educativi degli allievi e gli irrigidimenti ministeriali, degli Enti di formazione professionali, solo raramente propensi o accompagnati a pensarsi come soggetti della scuola e non del “sociale”.
Aver smesso di parlare di secondo canale ha probabilmente tolto a tutti gli attori di cui sopra il quadro di riferimento in cui muoversi per mettere in comune i propri punti di vista, le proprie peculiarità e i propri approcci. Ha tolto anche lo spazio “sistemico” specifico in cui trovano casa l’apprendistato per i ragazzi sotto i 18 anni, i percorsi di Its, gli Ifts, i percorsi misti scuola-lavoro, che sono tornati ad essere elementi delle “politiche attive del lavoro” (come da un lato è giusto, ma dall’altro non sufficiente, per dar loro radici e riconoscibilità sociale).
Terza questione: l’Accordo Italia-Germania è senz’altro un elemento importante, e a suo modo utile, per porre ancora una volta le questioni giuste a una scuola, quella italiana, che soffre di una cronica tendenza a dissipare le grandi e positive energie educative e culturali che essa, nonostante tutto, continua a generare. Le dissipa per tanti motivi, tra i quali spicca la ormai urgentissima necessità di darsi un quadro istituzionale globale nuovo e capace di comprendere tutti gli attori e i portatori di interessi.
Che sia utile e importante lo si vede, paradossalmente, dalle reazioni che provoca. Esistono, rispetto a dieci anni fa, resistenze maggiori e un maggior disamore tra gli insegnanti. Reazioni tra gli studenti e in importanti parti delle forze politiche. Maggior debolezza politica e progettuale tra i soggetti dell’autonomia scolastica, siano essi istituti statali, scuole paritarie o enti di formazione professionale. Una incompleta capacità da parte del mondo delle aziende, e contemporaneamente una maggiore indisponibilità da parte della scuola-amministrazione, a far sì che il percorso educativo, formativo e di istruzione possa riguardare soggetti diversi dalla scuola: sistema duale significa che un ragazzo sceglie di proseguire gli studi sul lavoro e trova disponibilità in aziende che lo assumono (come troverebbe disponibilità all’iscrizione presso un Istituto), le quali a loro volta coltivano e ricevono riconoscimento del loro ruolo sociale e culturale, e non solo sgravi fiscali e incentivi economici.
Ha perfettamente ragione il sottosegretario Ugolini, a rammaricarsi del fatto che nel nostro Paese il dibattito pubblico sulla scuola non sia mai posto al livello delle questioni essenziali di tenuta (economica, e non solo) di un sistema, ma solo a quello della cronaca o della “novità” eclatante. I punti del lavoro culturale, che l’Accordo Italia-Germania solleva e implica, sono questi: tocca alla società civile ricominciare ad occuparsene.