Immaginiamo una classe scolastica di un istituto superiore, frequentata da studenti di medio livello per quel concerne le capacità di studio, inserita in un contesto sociale a mediocre stimolazione culturale, e seguiti in modo intermittente dall’accompagnamento culturale dei genitori. E immaginiamo un insegnante che viene incaricato dagli uffici regionali di catapultarsi in quel contesto e insegnare, tanto per fare un esempio, la filosofia, per due o tre ore a settimana.
Quali difficoltà incontra di primo acchito? Nei primi mesi il gruppo resiste, cioè si oppone alla novità del turn over. Dopo pochi giorni di curiosità, infatti, il nuovo contatto, che esige una regolarità nello studio e il rispetto delle norme, diventa ostile, e comincia quel noto braccio di ferro contro il docente “di passaggio”, che dura quasi fino alla fine del primo trimestre. Ma si tratta di un ostacolo superabile, perché quel conflitto genera la relazione, e poi, come dire, si procede in discesa. L’importante è tenere il punto.
Ma il riscontro più problematico è sempre la straordinarietà della differenza dei livelli culturali e motivazionali degli allievi tra di loro. Per una serie di problematiche scolastiche di ampio respiro, nella stessa classe si può incontrare l’allievo già pronto per l’università, e quello che avrebbe bisogno di tornare sui fondamenti della grammatica italiana, non capace di sintetizzare un testo breve e narrativo in un discorso orale. Questa distanza, tra gli adolescenti, ha evidenti implicazioni sul piano emozionale, creando tensioni, irrisioni, paure, ostracismi, e soprattutto differenze motivazionali.
La ricerca didattica ha studiato molte variabili interessanti, e la più nota è il superamento della lezione frontale, oggettivamente limitante, a favore di approcci seminariali, laboratoriali, legati all’apprendimento cooperativo. Senza dubbio, una didattica che riuscisse a scendere nel disordine morale e cognitivo dell’adolescente contemporaneo, attenuando la struttura rigida dell’impostazione tradizionale e cercando la motivazione interna, seguendo le curiosità soggettive per sollecitare il conseguimento di operazioni complesse, sarebbe auspicabile.
Ma proviamo adesso a ragionare sul docente. Magari non ha la cattedra piena, e porta in busta paga circa 1.100 euro al mese. Tolti i mesi estivi, per cui non è pagato, fanno più o meno 900 euro al mese. Consideriamo che spesso deve pagare un affitto nella città in cui vive, consideriamo che ha una famiglia (i precari infatti hanno mediamente quarant’anni e una decina d’anni di servizio alle spalle, non sono sbarbatelli). È evidente che per potersi sostenere deve svolgere qualche altra attività, per strappare almeno un altro paio di centinaia di euro al mese.
Certo non potrà comprare ogni giorno il quotidiano, non avrà facilmente occasione di andare all’estero e quant’altro. Ora, qualunque manuale di didattica spiega che la strategia cooperativa mirata all’apprendimento significativo, certamente più efficace della lezione tradizionale per superare gli ostacoli oggi presenti nell’insegnamento, riduce la fatica “in classe” per il docente, ma implica un notevole aggravio di lavoro preparatorio, per la scelta dei materiali, l’ideazione di sempre nuove attività, e il controllo continuo dei risultati. Ci vorrebbero anche mezzi a disposizione (dalla cancelleria alla tecnologia) spesso assenti nella scuola, e una collaborazione con i docenti “storici”, che invece a me pare sempre più difficile.
Tra l’altro il docente precario, se vuole seguire un convegno, deve rinunciare a un giorno di stipendio e di contributi. E questo per qualificare l’offerta didattica, no? Senza contare che un anno è dedicato alla preparazione di un inutile concorso, un anno a conseguire un master per non farsi scavalcare in graduatoria, un anno si lavora a settanta chilometri da casa propria e il tempo se lo mangia il viaggio…
Va da sé allora che la possibilità di implementare una “ricerca-azione”, per un docente coscienzioso e consapevole della necessità di un cambiamento, diventa fonte di frustrazione, per via della sua stessa difficoltà strutturale nell’applicazione, nonché nella gestibilità del lavoro fuori orario, per via del basso salario. Permane dunque un modello di scuola superato e inadeguato, di cui siamo consapevolmente trasmissori sociali, e di cui percepiamo l’inefficacia per almeno un terzo del gruppo classe.
Rimuovere gli ostacoli oggettivi a una buona didattica, però, non compete ai docenti, che non ne hanno la possibilità, ma allo Stato, cioè ai genitori, che anziché corrodere la dignità degli educatori dei loro figli, riferendosi ai cosiddetti “mesi estivi” di vacanza (e anche qui ci sarebbe un lungo discorso da fare), dovrebbero pretendere dalla loro classe politica aule meno popolate, docenti meglio pagati, stabilizzati e messi in condizione di sperimentare.
Ma anche questa campagna elettorale langue, su questo punto. Ecco perché, infine, i migliori tra i nostri insegnanti stanno lentamente abbandonando la scuola. E purtroppo ne hanno tutte le ragioni. Non è gratificante per chi ha talento operare in una struttura in palese dismissione, considerata socialmente un peso economico, e destinata persino a un ruolo residuale nella formazione delle giovani generazioni. Non è neanche una questione di meritocrazia, ma, come dire? Di “dignitocrazia”.