L’uso dei nuovi media, guardato da genitori e insegnanti con un misto di timore reverenziale, ostilità, entusiasmo e sospetto, «condiziona inevitabilmente la percezione del mondo e le modalità di pensiero con cui l’essere umano lo affronta» spiega a ilsussidiario.net Renata Kodilja, docente di psicologia sociale nell’Università di Udine. Per questo è necessario che gli adulti non rinuncino al controllo, e soprattutto, ad alcune buone, intelligenti regole per evitare i pericoli derivanti da un uso indiscriminato di tablet e pc da parte dei giovanissimi.



Quello che tutti si chiedono è se l’ambiente costituito oggi dai nuovi media si accompagni nei giovani a nuove attitudini cognitive. Qual è la sua opinione in merito?

La mente umana non è qualcosa di statico, predeterminato, universale o impermeabile rispetto alle influenze dell’ambiente in cui si sviluppa, e i processi cognitivi non sono assoluti ma plasmati attraverso l’apprendimento e la socializzazione. L’ambiente in cui crescono oggi i giovani, i cosiddetti «nativi digitali», o «figli del mouse» come li chiamo io, è composto in maniera massiccia da molti devices tecnologici e il loro uso (e abuso) condiziona inevitabilmente la percezione del mondo e le modalità di pensiero con cui l’essere umano lo affronta. Non solo, la rivoluzione digitale è stata di tale portata da stravolgere l’ambiente di riferimento.



In che senso?

La tecnologia è diventata la nuova «realtà da abitare», una estensione della mente umana, un mondo parallelo al mondo reale che determina ristrutturazioni cognitive, ma anche emotive, sociali e identitarie. A proposito di processi di definizione dell’identità, un esempio tra i tanti è dato dalla constatazione che oggi i  nativi digitali imparano presto a manipolare parti del sé nella realtà virtuale attraverso gli avatar e i personaggi dei videogiochi. Quindi un fenomeno di ambiguità identitaria, in qualche modo una rinuncia all’identità in favore di una fluidità dell’identità stessa, con evidenti ricadute e latitanze di responsabilità nelle relazioni sociali.



Alberto Contri ha usato espressioni molto forti riferite ai giovani: destrutturazione del pensiero, calo dell’attenzione, attitudine a pensare per «frammenti». Qual è la sua esperienza sotto questo aspetto?

Io ribalterei l’ordine dei fattori nel ragionamento. Partiamo dalle evoluzioni tecnologiche piuttosto che da effetti osservati empiricamente. Parafrasando Derrick De Kerckhove, studioso degli effetti psico-sociali dei media, allievo di Marshall MsLuhan, nella storia del genere umano l’invenzione della scrittura ha trasferito la memoria dal corpo al testo, l’avvento della televisione ha sancito il passaggio della memoria dalla mente allo schermo, oggi Internet sposta la memoria in un ambiente virtuale al di fuori del corpo e degli schermi. Questa espansione comporta un radicale cambiamento nelle condizioni ambientali di apprendimento. Per dirla con le parole di De Kerckhove, si tratta di «una forma di estensione del pensiero… il mondo esterno passa dalle pagine allo schermo e sullo schermo prendono vita forme di coscienza, di espressione di coscienza, basate sul linguaggio, che sono una estensione della nostra mente». In questo nuovo mondo tecnologico non è più importante sapere tante cose ma in che modo accedere a frammenti di conoscenza.

Sì, ma in concreto… 

Provo a dare anche una risposta più empirica alla sua domanda: discutendo con i miei studenti sui temi di studio, sia durante un esame sia per un progetto di tesi di laurea, ho spesso l’impressione che i contenuti nelle loro menti siano distribuiti come su un desktop del moderno computer, sullo stesso piano software, applicazioni, cartelle di materiale, file singoli di testo, immagini, video, ecc… Organizzazione piana e lontana (per fortuna, più user friendly) da quella struttura gerarchica ad albero richiesta dai vecchi, preistorici sistemi Ms Dos in cui se non rispettavi l’architettura del ragionamento e della logica sudavi le sette camice per recuperare un contenuto.

Se i nuovi media costituiscono il primo contesto, in ordine di tempo, con il quale i giovani vengono a contatto, può la scuola non farsene carico?

Credo che il mondo della scuola e nello specifico molti insegnanti, anche su base volontaria, cerchino di far fronte alle massicce evoluzioni tecnologiche ma anche culturali e sociali in atto con risorse insufficienti. In sostanza anche quando nella scuola non mancano i computer per la didattica, penso che siano carenti negli insegnanti l’aggiornamento e la formazione che consentirebbero loro di gestire quelle dimensioni meno tangibili del cambiamento: cognitive, sociali ed emotive.

E per quanto riguarda le famiglie?

Mi sembra che il coordinamento tra scuola e famiglia sia carente, e che la famiglia abbia rotto quel tradizionale legame di solidarietà con la funzione educativa scaricando sulla scuola le prevalenti responsabilità. Quindi, per tornare alla domanda di prima, sì, credo che la scuola debba governare i processi formativi, che debba essere protagonista attiva del cambiamento in atto se non precursore essa stessa, ma con la necessaria consapevolezza e il dovuto sostegno degli altri soggetti formativi coinvolti.

Poniamo dunque che l’utilizzo dei nuovi media (es. tablet o pc per l’apprendimento individuale invece di quaderni e libri…) modifichi l’apprendimento. Dove comincia, allora, il problema?

Proviamo innanzitutto a fare una sintesi di quello che sarebbe il «problema» (forse è più utile chiamarlo «evoluzione»?) in un’ottica psico-sociale. I nativi digitali sviluppano presto buone abilità visuospaziali grazie ad un apprendimento prevalentemente percettivo, spesso invece non sviluppano adeguate capacità simboliche (di tipo metacognitivo). Utilizzano il cervello in modalità multitasking (sanno utilizzare più canali sensoriali e più modalità motorie contemporaneamente), sono abili nel rappresentare le emozioni (attraverso la tecnomediazione della relazione e il cyber-linguaggio), un po’ meno nel viverle. Sono sono meno abili nella relazione face-to-face, ma molto capaci nella relazione tecnomediata, e, quindi sono in grado di vivere su due registri cognitivi e socio-emotivi, quello reale e quello virtuale. Per completezza citiamo anche l’ulteriore fenomeno psico-sociale legato alla fruizione di Internet: una nuova forma di dipendenza come dipendenza dalla Rete, definita Iad (Internet Addiction Disorder) che a tratti fa gridare all’ennesima emergenza sociale e alla demonizzazione della rete.

Qualche consiglio a presidi e docenti, soprattutto riferito alle età più critiche come quelle della primaria e della scuola media?

La struttura reticolare di ipertesti e reti favorisce la frammentazione di contenuti complessi in concetti più semplici, e sempre più sintetici − Twitter docet − agevolando la raccolta soggettiva dei contenuti. I supporti multimediali (immagini, suoni, animazioni…) hanno contribuito ad incrementare il coinvolgimento emotivo dell’utente e ad abbassare l’attentività cognitiva. Queste innovazioni hanno probabilmente messo in crisi l’approccio formativo classico basato sulla distinzione tra i due stili cognitivi: quello visuale-olistico e quello testuale-analitico. E credo che questa crisi abbia investito indistintamente insegnanti e genitori, provocando in qualche misura quel fenomeno noto come  dei «figli senza maestri». Ciò detto, credo che ogni educatore oggi debba impegnarsi ad integrare piuttosto che escludere: sollecitare lo sviluppo di più stili cognitivi piuttosto che preferirne uno solo, moltiplicare i supporti didattici «allenando i giovani all’uso» del classico formato di libro al più innovativo uso dei wiki. Come sempre, educare vuol dire trasmettere qualcosa, ma vuol dire anche essere autorevoli, competenti e mettersi in discussione con senso di responsabilità.

In questo contesto, come possono i genitori aiutare i figli e qual è il loro compito?

Di noma rispondo come un professore «vecchio stampo»: con le regole! Io credo ancora che regole precise, senza essere coercitive, siano utili alla formazione complessiva del bambino prima e dell’adolescente poi. Potrò sembrare anacronistica quando affermo che il rispetto di regole e ruoli è elemento imprescindibile per la nostra crescita e che i genitori devono assolvere alle responsabilità del ruolo, per quanto scomode e faticose.

Il che non vuol dire, dunque, vietare in modo assoluto al bambino questo o quello.

No, infatti. Vuol dire ad esempio definire i confini dell’utilizzo di Internet attraverso la navigazione assistita, oppure pre-fissare un orario limite per i videogiochi. Con la definizione di principi chiari e rigorosamente rispettati il bambino interiorizza una bussola di opportunità e di adeguatezza dei comportamenti che diventerà i suo codice permanente del comportamento adulto. Inoltre credo che questo atteggiamento «severo» di genitori responsabili contribuisca ad aumentare il vissuto di solidarietà e condivisione con i bambini migliorando la fiducia del rapporto.

Esistono, in tenera età, rischi legati ad una preponderanza dell’elemento virtuale? Come si manifestano e quali sono le «contromosse»?

Ad oggi non è facile definire una griglia certa di sintomi-civetta rispetto ad un uso eccessivo della rete. Certamente è sempre utile monitorare cambiamenti nei comportamenti di bambini e adolescenti legati alla distrazione, poca concentrazione, poco interesse per le attività ricreative e per i libri classici, modificazioni di vocabolario e uso del linguaggio. Come ho detto, ai genitori e agli insegnanti consiglierei sempre sorveglianza e attenzione e l’intervento con la condivisione di regole quando necessario. Ad esempio, recenti dati di utilizzo della navigazione in rete di bambini di 7-8 anni indicano che i genitori non controllano la cronologia di navigazione dei propri figli perché non la ritengono pericolosa oppure perché non sanno come farlo. I nuovi media, come tutti gli altri ambiti della vita, richiedono la presenza di codici normativi legati alla fruizione corretta e consapevole.

Finché si arriva all’inevitabile «scontro» con lo studio tradizionale…

A mio modo di vedere l’utilizzo più proficuo dei nuovi media è considerarli un ausilio allo studio tradizionale e all’apprendimento, senza sostituirsi all’impegno personale nell’acquisizione di informazioni e contenuti (contrastando in tal modo effetti ad esempio di depotenziamento della memoria). E infine, pensiamo ai nuovi media come ad un canale privilegiato e rapido per reperire e divulgare informazione, diventando una facilitazione per veicolare creatività e sapere, non per sostituirsi ad essi.

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