Immaginiamo che a scuola debba iniziare lo studio di un nuovo autore, e poniamo per assurdo che esso sia Vasco Rossi. Come si procede, di solito? Paragrafo 1: la vita. Ossia: Vasco Rossi nacque a Zocca il 7 febbraio 1952; suo padre faceva il camionista, eccetera eccetera. Paragrafo 2: le opere. Il primo album fu pubblicato nel 1978 e si intitola Ma cosa vuoi che sia una canzone; contiene otto tracce: La nostra relazione, eccetera. Paragrafo 3: l’ideologia. Ossia: «vita spericolata», «pessimismo cosmico» e robe del genere. Paragrafo 4: lo stile. Cioè il rock, dai predecessori come i Rolling Stones al confronto con Ligabue. Dopo qualche settimana, uno studente avrebbe tutte le ragioni per chiedere: «professoressa, scusi ma Vasco Rossi non fa il cantante? e quando ascoltiamo una sua canzone?». 



Dimenticavo: prima di questo capitolo – come non manca mai quello sul Medioevo prima di Dante e sul Romanticismo prima di Leopardi (ma non doveva averlo già fatto l’insegnante di storia?) – bisogna sorbirsi l’introduzione al contesto storico-culturale dell’epoca, ed ecco pagine e pagine sull’Emilia Romagna nel dopoguerra. Quale mai possa essere il nesso con Albachiara non è dato sapere: certo è che intanto perfino Vasco è diventato insopportabile. 



Qual è la prima cosa che serve per fare letteratura? Le parole dell’autore: non le parole sull’autore. È davvero rilevante la biografia? Sentite Pirandello: «nella mia vita non c’è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri». Pascoli rincara la dose, suggerendoci che spiegare la vita dei poeti è soltanto un trucco inventato da chi non capisce niente di poesia pur di avere qualche cosa da dire: «si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto»; «i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi».



Noi studiamo Dante, Tasso, Leopardi per quello che hanno scritto, non per quello che hanno fatto. Anche perché di un paragrafo sulla biografia rimane soprattutto il gossip: «prof, ma è vero che D’Annunzio si fece togliere una costola per fare meglio le sue porcate?». Dopo cinque anni di liceo, uno studente sa poche cose ma chiare: Omero era cieco, Beethoven era sordo, Leopardi era gobbo, Tasso era pazzo, Pascoli era sfigato, Orazio beveva, Pasolini era pedofilo, Svevo era inetto, Montale aveva il male di vivere. Una galleria di mostri, insomma, e una sola conclusione: “loro erano strani, io sono normale, quindi quello che loro dicono non mi riguarda”. 

In una poesia, invece, non parla la vita dell’autore, bensì la nostra vita: «la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve», sentenzia con semplicità mirabile Massimo Troisi nel Postino. Il primo verso della Divina Commedia è esplicito: parla di «nostra vita», dice «nostra», non dice «mia». Non sarebbe letterariamente serio ignorare il nesso con quello che viviamo. Se leggendo il primo canto dell’Inferno non troviamo nulla che riguardi la «nostra vita», o Dante ha sbagliato a scrivere o qualcosa non va nel modo in cui lo leggiamo.

È necessario allora far piazza pulita di un metodo scolastico di leggere. Provate a chiedere a qualsiasi ragazzo se ha presente canzoni, film, poesie e anche libri da cui si sente descritto, che addirittura lo commuovono: assolutamente sì, non farà fatica a trovarne. Il problema è che rarissimamente qualcuno di loro si è commosso per qualcosa che ha letto a scuola. Che cosa in classe ostruisce questo cuore? Anni sui banchi hanno sortito l’effetto di fargli disimparare un metodo che la natura ci ha comunicato fin da piccolissimi. Maria Michelle ha un anno e mezzo, ma quando ha visto il pesciolino Nemo che ritrovava il padre si è girata e ha abbracciato il suo papà: totalmente dentro una storia altra e così immedesimata da paragonare quella storia con la propria esistenza. Quanti studenti liceali sanno farlo ancora quando leggono Ariosto o Virgilio?

È che molti insegnanti non credono che un testo sia in grado di parlare al cuore di un ragazzo. Il mio maestro ci credeva, e in quarta elementare ci fece imparare a memoria nientemeno che La vergine cuccia di Parini: se ne infischiò di 250 anni di distanza linguistica e dello stile classicheggiante, e io non smetterò di ringraziarlo per avermi fatto decidere, a 9 anni, di iscrivermi a Lettere, semplicemente perché quella poesia era troppo bella. Se invece mi avesse fatto studiare dei paragrafi sull’illuminismo e sulla polemica dell’intellettuale contro la società nobiliare, mi avrebbe fatto ammuffire la letteratura. Anche perché, come osserva Michail Bachtin, «se il significato di un’opera viene ridotto, ad esempio, alla sua funzione nella lotta contro la servitù della gleba (nella scuola media si fa così), quest’opera deve perdere totalmente il suo significato, quando la servitù della gleba e i suoi residui escono dalla scena».

Chi sommerge i testi con troppe informazioni fiacca le energie di uno studente prima ancora che inizi a leggere. Provate a sondare a che capitolo dei Promessi sposi sono arrivati a Natale gli studenti del secondo anno: di un romanzo di 38 capitoli è rarissimo che se ne siano letti 10, e sono pronto a scommettere che nella maggioranza delle classi si sono perse invece settimane a parlare della mamma di Manzoni, del giansenismo, di Walter Scott e del Seicento. Basterebbe un calcolino per capire che se fai 4 capitoli in 3 mesi, è praticamente impossibile leggere i restanti 34 in 5 mesi. 

Prendete una prima: stanno un mese a fare la questione omerica e poi leggono in tutto tre brani dell’Iliade. Ma la questione omerica si può fare in 20-25 secondi: “su Omero non abbiamo certezze: secondo alcuni ha scritto Iliade e Odissea ma di lui non sappiamo altro, quindi leggiamo direttamente Cantami o diva…; secondo altri non è nemmeno esistito, quindi di cosa dovremmo parlare? Leggiamo direttamente Cantami o diva…”. Ho visto ragazzi del primo liceo e anche di prima media entusiasmarsi leggendo integralmente i poemi omerici, ho sentito dire da alcune mamme che mai avevano visto i figli finire così in fretta la cena, e tutto per continuare l’Odissea

Lo so che per tanti insegnanti proporre un testo senza paragrafo è scandaloso come un corpo senza mutande. Per chi è cresciuto all’ombra dello storicismo dei manuali, è un dogma di fede che l’autore è un uomo del suo tempo e dunque va anzitutto inquadrato nel suo contesto. Ed è anche vero, solo che «gli artisti veri», come scrisse Piero Calamandrei a Pavese, «sono del loro tempo e di tutti i tempi»: cioè soprattutto del mio tempo, altrimenti non si capisce perché mai possano interessarmi.

 

Siamo pronti a lasciarci sfidare da quello che leggiamo? «I libri seri non istruiscono, interrogano» (Gòmez Dàvila). Non sono cose che hai imparato e che spieghi, come pacchetti ben incartati: le poesie non si sanno, succedono. Vogliamo che i nostri alunni diventino dei bravi ripetitori di paragrafi o che veramente raggiungano queste stracitate “competenze”? cioè che imparino a leggere delle opere letterarie? che scoprano il gusto di leggerle? Smettiamola di interrogare sui paragrafi, strappiamo pure le pagine inutili come nella celebre scena dell’Attimo fuggente, e leggiamo direttamente i versi dei poeti: ci troveremo di fronte alla bellissima difficoltà di capire con la nostra testa cosa stanno dicendo e cosa ci stanno dicendo, senza avere già il discorso pronto, di cercare noi le parole giuste per raccontare una scena, di sentire il ritmo di un’ottava, e magari, mentre leggiamo, a sentirci letti.

«C’era una volta Wordsworth. Poi venne il diluvio di commenti su Wordsworth», osserva amaramente George Steiner: perché «vogliamo con tutte le nostre forze che ci venga risparmiato l’incontro diretto con la ‘vera presenza’»? Anziché indottrinarli e annoiarli, fidiamoci dell’intelligenza dei nostri studenti, che magari scopriranno di saper pensare qualcosa che non ha mai pensato né il libro né l’insegnante né answers.yahoo: «se io ho un libro che pensa per me», scriveva Kant, «io non ho più bisogno di darmi pensiero di me». Ecco la posta in gioco mentre leggiamo: accorgersi di sé.

(1− continua)


 

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