Vi ricordate l’appello di Steve Jobs? Siate affamati, siate folli. I giovani italiani non sono né l’uno né l’altro. Al contrario: sazi e conformisti, aspettano che la promozione e il lavoro bussino alla porta. Ma non è tutta colpa loro. Nel suo ultimo libro, Contro i papà (Rizzoli, 2012) Antonio Polito spiega come e perché i padri italiani hanno rovinato i loro figli. Ma quel che è peggio, è che lo hanno fatto per il loro bene. «L’ho scritto per due ragioni» racconta Polito a ilsussidiario.net. «La prima è personale. Quando sono ridiventato padre, a distanza di 18 anni, ho perduto il mio. Questo mi ha indotto a ripensare al ruolo che mio padre ha avuto nella mia vita. La seconda ragione, invece, è politico-culturale. Nel dibattito italiano notavo da tempo una serie di contaddizioni clamorose».
Come quella che stigmatizzò nel suo editoriale sul Corriere un anno fa: «Perché proteggiamo (troppo) i nostri figli».
Esatto. Un vice-ministro (Michel Martone, ndr) veniva contestato per aver definito «sfigati» giovani che a 28 anni sono ancora fuoricorso. Quei giovani che a 28 anni accampano il proprio diritto ad un posto di lavoro, per di più con un contratto inamovibile, oppure ad avere l’università a 20 chilometri da casa. Quell’articolo provocò un’incredibile ondata di indignazione, che mi lasciò stupefatto. Decisi di pensarci su e così è nata l’idea del libro.
Lei scrive che siamo l’Italia dei «papà-orsetto» e che «in nome dei nostri figli li abbiamo rovinati». Cos’è accaduto?
La nostra generazione, quella dei nati come me negli anni Cinquanta, i baby boomers, ha avuto un vita facile. Grazie al lavoro dei nostri padri abbiamo avuto decenni di assoluto benessere, diventando forse la generazione più benestante della storia dell’umanità. Ci siamo convinti – noi, padri – che dovessimo a questo punto costruire una società, un futuro, il più protettivo possibile per i nostri figli, che potesse garantir loro quello che noi abbiamo avuto.
Non è una aspirazione legittima?
Certo. Ma il problema sta nel modo in cui lo abbiamo fatto. Abbiamo cominciato a rimuovere tutte le presunte asperità dal presente e dal futuro dei nostri giovani. Li abbiamo coccolati, protetti. I nostri figli non hanno più trovato in noi qualcuno cui opporsi, uno stimolo a crescere, a rendersi indipendenti. Dal 6 politico all’università facile, fino al lavoro come diritto. Ma il lavoro è un diritto non meno della salute; diritto al lavoro non vuol dire diritto a un posto di lavoro. Se il posto è un diritto, tanto vale aspettare che sia lui ad arrivare da noi, no?
La generazione dei baby boomers è quella che ha attraversato il ’68, con il quale lei è molto critico.
Siamo la prima generazione che ha disobbedito ai padri per obbedire ai figli. Ci siamo ribellati al padre, abbiamo fatto la rivoluzione contro la sua autorità, e ora coi nostri figli facciamo appello al negoziato, alla moral suasion. Abbiamo trasmesso loro il diritto al benessere, senza nessun dovere connesso.
Può un padre trasmettere affetti senza trasmettere anche norme?
Secondo me no. La prima domanda da porsi è: che cosa intendo trasmettere, come padre? Noi, padri di oggi, concepiamo ancora la paternità come trasmissione? Anche l’affetto comporta una severità e un rigore. Un padre affettuoso è un padre che ha un’idea della vita e la comunica ai suoi figli con la presenza e con l’esempio. L’affetto non è vuoto, ma pieno di significati. Altrimenti è senza responsabilità.
Lei individua nella crisi del padre la chiave di lettura che spiega i principali problemi del paese. Non è eccessivo?
È una valutazione che lascio al lettore. È vero, da questo punto di vista, che il libro è anomalo; in realtà la prima anomalia è che nel dibattito pubblico italiano la società e l’individuo sono due mondi separati. Ci sforziamo di capire la prima con l’economia e la politica, mentre al secondo riserviamo la cultura; psicologica, filosofica, letteraria. Perdiamo così di vista il fatto che i maggiori problemi della nostra società sono figli di grandi questioni culturali che nascono nella famiglia, nel rapporto tra genitori e figli. Attribuiamo la colpa o il merito di quello che non va o che funziona a entità superiori come lo Stato, il governo, la politica, dimenticando che l’Italia è fatta a nostra immagine e somiglianza.
Anche lei definisce i giovani come bamboccioni.
Si continua a dire che i nostri giovani stanno i casa troppo a lungo perché non hanno soldi per essere autosufficienti, ma ci sono dati che dimostrano che più alto è il reddito della famiglia di appartenenza, più è difficile che i figli taglino il cordone ombelicale. Vuol dire allora che il problema è culturale prima che economico. Negli Stati Uniti gli italoamericani sono più bamboccioni di tutti gli altri gruppi etnici.
È colpa dei papà se non siamo una società del merito?
In Italia i padri sono i primi sindacalisti dei propri figli. Dedico un capitolo al tema delle raccomandazioni o a quello della tolleranza verso atteggiamenti scorretti come il copiare a scuola: nel padre di oggi c’è la convinzione che siccome tutti imbrogliano, anche suo figlio ha il diritto di fare qualcosa che non è corretto pur di ristabilire una condizione di parità! Ovvero: «non è colpa mia, ma gli altri lo fanno e quindi lo faccio anch’io». In una società dove il merito è stimato, come negli Usa, se gli studenti si vedono scavalcati da uno che copia sono loro stessi a protestare; in Italia è legittimo copiare perfino all’esame di maturità. Lo ha detto il Consiglio di Stato.
Quali effetti ha, sull’ingresso nel mondo del lavoro, la mentalità iperprotettiva che lei denuncia?
Innazitutto, il 38% dei giovani italiani trovano lavoro attraverso la famiglia, mediante raccomandazioni e conoscenze. Poi non è vero che i nostri giovani siano più disoccupati degli altri. Quando si dice che c’è un 33% di giovani disoccupati, non ci si riferisce all’insieme di chi non lavora ma alla popolazione attiva in quella determinata fascia di età, pari a circa il 25%. Quel 33 di conseguenza, essendo relativo a un 25%, si ridimensiona di molto, anzi è in linea con i numeri pre-crisi. Il vero problema non sono i giovani che non trovano lavoro, ma quelli che non lo cercano. I dati dicono che i paesi in cui è più alto il risparmio familiare e più basso il numero dei figli, sono quelli dove i figli ritardano di più l’ingresso nel mondo del lavoro. Aspettano, insomma, tempi migliori, e intanto rimangono in famiglia. Questo è molto più grave, perché vuol dire non aver ragioni per alzarsi la mattina.
Si può imparare di nuovo ad essere padri, recuperare la saggezza che è andata perduta?
Di sicuro gli appelli alla responsabilità non servono a nulla. Io credo che la cosa più importante da fare sia rimettere in gioco noi stessi: provare a verificare quanto il nostro modo di concepire la vita è interessante per i nostri figli, sfidarli, opporsi se necessario; ma non fare il muro di gomma, che è frustrante, perché uno vi sbatte contro sempre invano. Non è vero che i figli hanno sempre ragione. Il coraggio delle nostre idee è il miglior antidoto al pessimismo e alla rassegnazione, loro e nostra.
Scartato il «sindacalismo», resta l’autorità.
Ma se vogliamo essere padri credibili, dobbiamo stare con loro, dedicar loro il nostro tempo. È come con i compiti a casa: farli al posto loro è sbagliato, ugualmente non serve a nulla pretendere che il nostro comando li inchiodi alla sedia. Questo ogni genitore lo può capire. Se invece ci sediamo al loro fianco, capiranno che quello che stanno facendo ha un valore. Con i figli occorre starci, starci e ancora starci.