Un’aggessione in piena regola, quella subita da una studentessa 13enne nel pisano, buttata a terra e presa a pugni e calci da tre coetanee, dopo essere stata presa di mira dal gruppetto per motivi sentimentali. Il caso probabilmente terrà banco per lo spazio di qualche giorno (anche se non è detto) sui mezzi di comunicazione. Poi verrà dimenticato, come moltissimi altri. Ma le violenze tra i giovani, nella scuola, continueranno ad esserci, spesso, troppo spesso (ed è quello che mi sgomenta di più) ignorate, semplicemente non viste.



Cosa colpisce di fatti come questo? Che sembrano sempre esplodere come fulmini a ciel sereno. Non si mette in atto un piano, che possiamo tranquillamente definire criminoso, senza prepararlo. La domanda è: come mai chi dovrebbe vigilare, prevenire, educare, rimane per primo sbalordito? La domanda (che chiama in causa ovviamente anche me) è: come mai noi insegnanti siamo divenuti tanto ciechi davanti a certi atteggiamenti, a certi modi di essere e di fare, di esprimersi, di porsi in classe nei rapporti tra compagni? Come mai, se notiamo qualcosa, non interveniamo o non lo facciamo con efficacia? Come mai assistiamo impotenti e per giunta stupiti a fatti che quanto meno avremmo dovuto prevedere? Il bullismo che si verifica nelle nostre scuole (a tutti i livelli: non c’è bisogno di arrivare a pestare qualcuno) giudica pesantemente il modo con cui educhiamo, o non educhiamo, i giovani. 



Penso ai nostri Pof. Penso a quelle dichiarazioni d’intenti, a quelle formulazioni che dicono tutto e non dicono niente, in merito alla mission dell’Istituto. Conoscenze, abilità, competenze… Chiacchiere! Il male della scuola è che coloro che la dirigono e la fanno non condividono un ideale. Primo, perché uno comune non ce l’hanno (ognuno vede e interpreta l’educazione a modo suo). Secondo, perché non sono nemmeno disponibili a lavorare insieme. Più o meno ci si mette d’accordo sui programmi da svolgere, sulla tipologia e il numero delle prove da somministrare, sulle tempistiche… Ma quello che più conta resta al palo.



Esco fresco fresco da una tornata di consigli di classe. Devo dire che mi cadono sempre le braccia quando andiamo ad assegnare i voti di condotta. A parte la soggettività delle interpretazioni (i parametri sono stati stabiliti, sono scritti nero su bianco nel Pof, ma poi prevalgono gli umori e le convinzioni delle varie maggioranze che si formano), noto una certa superficialità nel formulare un voto che invece dovrebbe avere un peso enorme, per noi e per i nostri studenti. Presi dal ritmo frenetico dei consigli, liquidiamo in quattro e quattr’otto la pratica. Quello è il momento in cui mi accorgo che certo situazioni vengono sottovalutate, che non vengono prese in considerazione come si dovrebbe. In generale mi rendo conto che manca la passione educativa, specie quando si tratta di prendere posizioni forti, quelle che fanno soffrire e faticare.

Siamo molto “umani”, molto capaci di identificare il ragazzo in difficoltà, quello che ha problemi familiari, quello che ha problemi col mondo intero. Benissimo. Ma non sappiamo interpretare e gestire il bullo, lo spavaldo, quello sicuro di sé (apparentemente sicuro di sé), quello che si sente più degli altri, quello che col proprio atteggiamento è capace di rovinare un’intera classe. Di solito stiamo dalla parte di quelli “svegli”, di quelli “simpatici”, quelli dalla “forte personalità”, e guardiamo come un po’ sfigati quelli che stanno silenziosi al posto loro, che si comportano correttamente, che lavorano sempre e fanno tutto da soli, senza ricorrere ai mezzucci dei furbi. E non ci rendiamo conto che, nei confronti di costoro, quelli “svegli” attuano di continuo un bullismo subdolo e asfissiante, che passa per battutine, punzecchiature, emarginazione di fatto. Ultimamente si abusa di Facebook per attuare quest’aggressione. Quanti si sono ritrovati messi alla berlina sulla pubblica piazza virtuale? Parlo di casi che conosco, non per sentito dire.

In questi casi si dovrebbe intervenire, richiamare, educare, sottolineare valori e disvalori. Con forza, con vigore estremo, con decisione, mettendo in atto misure che diano l’esempio a tutti, che siano significative. Lo facciamo? E come possiamo farlo, se spesso nemmeno vediamo? Se le cose ci arrivano addosso come fulmini a ciel sereno? Se uno studente è capace di soffrire per un anno intero una condizione di emarginazione all’interno della sua classe, senza che nessuno dei docenti se ne sia reso conto e abbia fatto qualcosa di concreto per aiutarlo? Se chi subisce questo tipo di violenza… “beh, è anche un po’ colpa sua… «si svegliasse un pochino!»”? Se, insomma, non abbiamo chiaro il punto d’arrivo del nostro lavoro? Se non condividiamo affatto (è triste dirlo, ma è la verità) un ideale educativo? Se anche quando vorremmo intervenire, un malato ipergarantismo ci lega di fatto le mani, ci mette di fronte a cavilli burocratici e a disposizioni di legge e addirittura di tutela della privacy che di fatto paralizzano ogni nostra possibile azione? Se le famiglie stesse dei nostri studenti non sono più capaci di educare, anzi, diseducano i figli e avallano il peggio del peggio?

Mi viene sempre da chiedermelo, quando la cronaca ci mette davanti al male che cova, cresce ed esplode nelle nostre aule, anche quelle apparentemente tranquille…