La lettura dei programmi elettorali delle principali formazioni politiche in campo (centrosinistra; centrodestra; centro) procura una sensazione di già visto, di retorico persistere su temi sollevati quasi più per rinfacciarsi reciprocamente il non fatto, piuttosto che per guardare e valorizzare esperienze di scuola attiva in atto.
Come sempre è in gioco una questione di metodo: anziché puntare sulla scuola come ambito di trasmissione di cultura e di tradizione che inizia dentro un rapporto educativo insegnante/alunno, la si ricaccia sullo sfondo di una dialettica ideologica fine a se stessa.
Viene da chiedersi: chi ha stilato le diverse piattaforme è consapevole di quello che è accaduto in questi ultimi anni? Si sono succeduti, nell’ordine (si fa per dire): riforme degli ordinamenti che hanno modificato un segmento, quello liceale-tecnico, lasciando aperto il rapporto con la formazione professionale; tagli di organici che non hanno innescato alcuna valorizzazione della professione docente; avvio di un (imperfetto) percorso di formazione iniziale degli insegnanti (Tfa) segnato da profonde incoerenze nel punto decisivo del nesso tra scuola e università; sviluppo di una coscienza vocazionale e professionale tra i docenti non più appaltabile automaticamente al sindacato, ancorato a posizioni per lo più conservatrici.
In ogni caso, a guardarla bene, viene da osservare che la scuola italiana non è per niente vero che sia ridotta al lumicino come qualcuno vorrebbe. E il merito è di un circolo virtuoso che ha funzionato, nonostante tutto, e che ha visto i soggetti della scuola assumersi determinate responsabilità di fronte a situazioni anche contraddittorie. Si sono sviluppate capacità manageriali di dirigenti che hanno dimostrato in talune situazioni di potersi avvalere degli strumenti (pochi) dell’autonomia e capacità di docenti di ogni ordine e livello non rassegnati ad un ruolo subalterno, disponibili ad adempiere in modo creativo i propri compiti a fronte di scarsi riconoscimenti, in primo luogo economici.
Il continuo confronto con l’emergenza educativa ha generato nei docenti e nell’organizzazione delle scuole profili professionali e dirigenziali che non mutuano la loro identità da modelli tecnocratici per cui la scuola dovrebbe essere assimilabile ad una rete informatica, ma fanno leva nelle risposte che danno (magari arrabattandosi) su risorse personali di conoscenza, comprensione di sé e della realtà di cui essi stessi consistono. Insomma, si stanno proponendo ovunque (e sono ben documentabili) espressioni di una soggettività professionale il cui fulcro è la non separazione tra la coscienza di sé e la propria operosità a favore di alunni e colleghi. È la ragione per cui, nonostante il burnout che colpisce molti docenti esaurendone la spinta comunicativa, tanti non cedono e anzi rifarebbero, se dovessero scegliere, il passo che li ha messi in cattedra.
Allora, se un soggetto dentro la scuola in qualche modo esiste, forte della consapevolezza della dignità e dell’importanza del proprio ruolo, perché non tenerne conto?
Ci sembra che nei programmi elettorali il riferimento a questa prospettiva di volere affidare la scuola a chi la sta facendo (al di là dei richiami all’autonomia scolastica o alla funzione sociale dei docenti, perduta e dunque da riconquistare) sia del tutto assente.
Nessun cenno nemmeno alle vicende relative al percorso transitorio di Tfa che vede impegnati attualmente 20mila giovani insegnanti; nulla sul Tfa speciale e nemmeno su come si intende proseguire o meno sulla strada della formazione iniziale, una volta acquisiti (ma lo sono per tutti?) la separazione dell’abilitazione dal reclutamento e dunque il superamento delle graduatorie ad esaurimento. Fattori, questi ultimi, di fondamentale importanza politico/culturale anche per determinare il futuro sistema di reclutamento del personale docente (altro tema sottaciuto).
L’agenda per la scuola è in gran parte da riscrivere, ci pare, a partire da questi interrogativi urgenti:
− Come si intende ampliare l’autonomia scolastica? Non è giunto il tempo di realizzare, accanto a quella funzionale, un’autonomia sostanziale anche giuridica e finanziaria delle scuole che le metta nella condizione di ricevere direttamente risorse e di essere valutate per come le gestiscono (a nostro avviso anche con benefiche ricadute sulla riduzione dei costi)?
− Come si intende intervenire nel breve periodo sul Tfa ovviando i numerosi problemi di sfilacciamento tra Miur, scuole e università? Come si intende proseguire con il Tfa ordinario e con quello speciale?
− Quale nuovo sistema di reclutamento del personale docente si vuole introdurre in Italia? A chi mettere in mano la macchina delle assunzioni? Le scuole potranno avere voce in capitolo sulla base dei rispettivi piani dell’offerta formativa che esigono in molti casi personale specifico e non generico?
− In che modo si intende procedere alla valorizzazione del docente professionista? Bastano misure incentivanti a premiare i migliori o è necessario introdurre una carriera professionale degna di tale nome?
− Come valutare le scuole e i dirigenti senza mortificare le leadership educative?
Non vorremmo che questi punti che fanno della scuola e della professione docente beni comuni da incrementare per la maturazione di tutta la società scadessero a elementi secondari, la cui soluzione è rinviabile all’infinito. Essi al contrario rappresentano una sfida posta ad una politica viva e interessata all’oggi, in grado di leggere il presente senza annegarlo nelle formule vuote.