Il decreto legge n. 95/2012 contenente “Disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica”, convertito dalla legge n. 135/2012, introduce, anche nella scuola italiana, naturalmente per risparmiare (ma è poi vero, visti gli appalti esterni multimilionari che girano in proposito?), un forte «impulso al processo di dematerializzazione». Vuol dire: a)iscrizioni alle scuole da effettuare soltanto con modalità online; b) «pagella in formato elettronico», con «la medesima validità legale del documento cartaceo», resa disponibile per le famiglie «sul web o tramite posta elettronica o altra modalità digitale» («pagella»? ma dove è vissuto il Miur nell’ultimo anno? le «schede di valutazione» e soprattutto i portfoli formativi anche come e-portfoli forse non devono esistere più?); c) registri online; d) invio delle comunicazioni agli alunni e alle famiglie in formato elettronico.
I mass media hanno amplificato, peraltro senza ironia, la portata ovviamente «rivoluzionaria» del provvedimento. Se ne sono subito accorti i genitori senza computer o, magari non per colpa loro, senza Adsl funzionante. Molti più di quanto si immagini, purtroppo. Un calvario iscrivere i figli alle scuole per il prossimo anno. Per fortuna hanno subito riavuto l’autorizzazione a tornare alle vecchie abitudini: andare a scuola per far fare agli amministrativi in servizio l’iscrizione on line.
Ma si sono accorti della portata «rivoluzionaria» del provvedimento anche i genitori molto esperti di computer, di internet, con banda larghissima, perfino «nativi digitali». Anche loro, infatti, sono stati invitati da più parti a concentrarsi sulla «novità». Come se il cuore della questione stesse nel mezzo tecnico con cui procedere all’adempimento, non nella natura, nella qualità e nell’affidabilità educativa dello stesso. Iscrivere un figlio a scuola, infatti, è e deve essere la conclusione di un lungo processo di osservazione e di dialogo educativo che coinvolge famiglia, docenti e allievo. Ma, ancora di più, è e deve essere l’inizio di un progetto di «vita buona» che lo studente stesso è chiamato ad elaborare, monitorare e valutare, potendo contare su tre reti di protezione.
La prima è quella di un sistema educativo di istruzione e formazione che non gli chiede soltanto di adattarsi alle prescrizioni che lo reggono, ma che si sforza anche di adattarsi alle sue esigenze e ai suoi desideri. Per esempio, che organizza in modo sistematico i cosiddetti Laboratori per l’Approfondimento, il Recupero e lo Sviluppo degli Apprendimenti (Larsa) per «assicurare e assistere» (legge n. 53/03, art. 2, comma 1, punto i) i passaggi tra i diversi percorsi formativi, quando lo studente avesse scoperto di aver sbagliato strada.
La seconda è una famiglia che non decide l’iscrizione al liceo invece che all’apprendistato formativo per pregiudizi di status, per distinzioni sociali competitive o per rivalsa sulle proprie sconfitte professionali, ma che assume fino in fondo preoccupazioni squisitamente «educative»: cercare, cioè, sempre, il bene del figlio, non il proprio; riconoscere e valorizzare le sue migliori capacità attuali, non quelle degli altri o attese da mamma e papà; mostrare fiducia e lasciargli libertà, ma, allo stesso tempo, chiedergli di pagare nel bene e nel male le conseguenze delle sue scelte, così da abituarsi a «diventare adulto».
La terza rete di protezione è quella dei numerosi attori sociali (agenzie del lavoro, uffici di orientamento e placement che le scuole, dal 2011, sarebbero obbligate ad approntare, siti ministeriali o delle associazioni imprenditoriali e sindacali) previsti dalle norme per offrire, momento dopo momento, alle famiglie e ai ragazzi, dati attendibili sul mercato del lavoro: professioni maggiormente richieste ora e da qui a dieci e più anni; tassi di disoccupazione giovanile in base alle scelte formative che si sono compiute nelle secondarie, nell’università, negli Its (Istruzione tecnica superiore) e negli Ifts (Istruzione e formazione professionale superiore); tassi di mobilità sociale assicurati incrociando status socio-economico-culturale delle famiglie e scelte scolastiche degli studenti, ecc.
Sulla base di queste condizioni può allora essere utile aver presenti alcuni criteri a cui le famiglie e i docenti potrebbero riferirsi per aiutare l’orientamento degli studenti. Chi fosse interessato ad approfondire le prime e i secondi, può farlo nel volume appena edito da La Scuola di Brescia, dal titolo Fare laboratorio. Scenari culturali ed esperienze di ricerca.
1. Nessuno può scegliere quanto non ha in qualche modo già incontrato e imparato a conoscere. Da questo punto di vista, se fino alla fine della terza media non si sono offerte al ragazzo molto più di qualche occasione per sperimentare in maniera esistenziale quanto il «lavoro», qualsiasi lavoro, se svolto con adeguati intenti formativi, sia un formidabile e motivante bacino di conoscenze e di abilità disciplinari che maturano competenze personali, difficilmente vorrà mai iscriversi a percorsi di studio che trovano in esperienze di «lavoro» la loro ragion d’essere.
2. I giovani diminuiscono. Il loro numero si è drammaticamente dimezzato negli ultimi trent’anni. Se vogliamo restare un Paese avanzato, non possiamo più permetterci due lussi molto costosi: il tasso attuale di dispersione scolastica (oltre il 30% di una generazione o non arriva o arriva in ritardo al diploma) e il tasso attuale di diplomi superiori, quelli successivi alla scuola secondaria, il cui basso numero ci è costantemente rimproverato dall’Europa. Dobbiamo per forza mirare ad innalzare il livello complessivo di istruzione e formazione di tutti i giovani italiani, nessuno escluso. Questo risultato, tuttavia, è impossibile: a) se non si realizza la pari dignità educativa e culturale tra le scuole quinquennali governate dallo Stato (licei, istituti tecnici, istituti professionali) e i percorsi di istruzione e formazione professionale e di apprendistato formativo governati, per la Costituzione del 2001, dalle Regioni; b) se non si costituisce, finalmente, e non una tantum, ma a sistema, in tutta Italia, l’istruzione e formazione professionale superiore che può nascere da una intelligente potenziamento degli attuali, rari corsi di Ifts e di Its; c) se non si diffonde il sistema dell’apprendistato formativo che, dai 15 ai 29 anni, consente per legge di acquisire qualifiche, diplomi secondari e superiori, lauree, dottorati.
3. Nella società globalizzata, della conoscenza e delle nuove tecnologie non esiste più un’età della vita nella quale si imparerebbero le conoscenze generali e un’altra, successiva, nella quale si imparerebbero quelle specifiche o professionali; nella quale formazione e lavoro, scuola e impresa, elaborazione concettuale e produzione materiale sarebbero e resterebbero momenti separati rispettivamente in due tempi e in due luoghi tra loro estranei. Infatti, poiché nell’arco dei prossimi decenni, ogni «lavoratore» cambierà da 10 a 20 lavori/aziende (se non vuole essere espulso dal mercato) e poiché, se riuscirà a svolgere sempre la stessa professione, pur in luoghi diversi, dovrà sapere che essa, per restare competitiva, si modificherà ogni 5 anni a tal punto, per complessità strutturale, modalità di esecuzione e contesto di esercizio, da palesarsi ogni volta come un mestiere diverso, famiglie e studenti, ma certo ancor più i docenti, devono essere aiutati a capire la natura autolesionistica del paradigma formativo separatista. Ormai si deve studiare e lavorare, lavorare e studiare per l’intero arco della vita.
4. Chi immagina possibile una società popolata soltanto da cantautori, stilisti, artisti, architetti, professori universitari, banchieri ecc. senza camionisti, panettieri, cementisti, parrucchieri, stallieri, operai, artigiani e simili è già stato, ma ancora di più sarà, disilluso dalla storia. Una società di «quaternario» e «terziario» snobistici senza «bravi» addetti al «secondario» non esiste. Se esiste, dura di sicuro poco una società che ritenga possibile reclutare gli addetti ad agricoltura, artigianato e industria soprattutto tra non qualificati descolarizzati, immigrati o «nuovi schiavi». In realtà, solo il contrario garantisce il futuro: tutti «bravi» nel fare «bene» ciò che si fa, tutti allo stesso tempo nella condizione di «elevarsi» professionalmente (art. 35, comma 2 della Costituzione) o cambiando mestiere o imparando a «fare meglio» e a «crescere in ruolo e responsabilità» in ciò che si fa. Questa la vera mobilità sociale che, purtroppo, negli ultimi quarant’anni il sistema scolastico non è più stato in grado di favorire.
5. Intanto si prenda atto di un dato: il 40% di chi prende una qualifica o un diploma dell’istruzione e formazione professionale della Regione Lombardia ha già un posto di lavoro prima di concludere; la restante percentuale lo ottiene entro quattro-otto mesi. Chi ha una laurea che non sia medicina (da decenni interdetta a tanti bravi e motivati candidati da un numero chiuso determinato con risposte a stravaganti quiz da lotteria Italia) non solo ha un posto di lavoro prima di finire, ma in alcuni casi raddoppia e in altri triplica i tempi di entrata nel mondo del lavoro.