La legge 30 dicembre 2010 n. 240, più comunemente nota come Legge Gelmini, ha istituito l’abilitazione scientifica nazionale che attesta la qualificazione scientifica, requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari. La macchina è stata messa in moto la scorsa estate e, come è noto, il percorso di questi mesi è stata accompagnato da varie polemiche circa l’operato dell’Anvur, in particolare per quanto riguarda il famoso criterio della mediana e la scelta delle riviste scientifiche su cui, anche da queste colonne, si è discusso in precedenza. In queste ultime settimane, il ministero sta via via procedendo alla nomina delle Commissioni che dovranno valutare i numerosi candidati. 



L’iter parlamentare della legge Gelmini è stato accompagnato da una campagna di stampa ben orchestrata e da numerose dichiarazioni di tanti politici, convinti che la legge potesse segnare l’avvio di un percorso virtuoso volto ad innalzare il livello qualitativo delle  università italiane. Nei fatti, è stata essenzialmente ridisegnata la governance dell’università attraverso un accentramento amministrativo e burocratico, riducendo al contempo l’autonomia dei dipartimenti (il tutto ovviamente “senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).   



Possiamo ritrovare la stessa distanza fra proclami ideali e realtà concreta in una recente nota del Miur dello scorso 11 gennaio 2013, dal titolo “su alcuni aspetti applicativi della nuova disciplina per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale”. Qui è scritto che “L’abilitazione è stata introdotta con la finalità di consentire alle comunità disciplinari di esprimere un giudizio responsabile ed autonomo, per il tramite di apposite commissioni, in merito al raggiungimento, da parte di ciascun candidato, della qualificazione scientifica indispensabile per aspirare a ricoprire posizioni di prima e seconda fascia nelle Università italiane”. Potrebbe sembrare una nobile linea di indirizzo per i lavori delle commissioni, se ciò non fosse contraddetto in pratica dalle scadenze entro cui le commissioni devono concludere i lavori, indicate da un decreto direttoriale di qualche giorno prima: le commissioni che devono esaminare fino a 500 candidati devono concludere i lavori entro il 30 aprile 2013, quelle che devono esaminare da 501 a 750 candidati devono concludere i lavori entro il 31 maggio 2013 e le commissioni con più di 750 candidati devono terminare i lavori entro il 30 giugno 2013. 



Ciò che desta vivo stupore, infatti, è che tali scadenze valgono sia per le commissioni nominate il 31 ottobre 2012 (Scienza delle Finanze), sia per quelle nominate lo scorso 18 gennaio 2013 (Geografia). Se consideriamo che, dalla data di nomina, devono intercorrere 30 giorni prima di iniziare i lavori, al fine di valutare eventuali ricusazioni di uno o più commissari da parte dei candidati, ci si rende conto di come, in alcuni casi, sarà difficile – se non impossibile – per le commissioni svolgere un lavoro approfondito. 

Consideriamo ad esempio una  commissione nominata a metà gennaio e che potrà iniziare i lavori intorno a metà febbraio. Assumiamo che debba valutare 400 candidati, ciascuno dei quali abbia presentato 12 pubblicazioni di 10 pagine ciascuna (ma in genere, il numero è ben maggiore): in circa due mesi e mezzo, si dovrebbe valutare il contributo originale e il rigore scientifico di ciascun candidato, inquadrando i suoi lavori nella letteratura scientifica del settore, al fine di assegnare o meno l’idoneità (si dovrebbero leggere circa 48mila pagine). È ragionevole supporre che i commissari possano svolgere adeguatamente il delicato compito loro assegnato?  

Per gli abilitati, si aprono successivamente le porte della seconda fase, quella della chiamata su posti disponibili presso i vari Atenei, dove resta da vedere quanti saranno i posti effettivamente disponibili, tenendo conto delle ristrettezze finanziarie degli atenei. Al di là del piano straordinario degli associati predisposto dal governo, gli atenei quest’anno devono far fronte ad un ulteriore decremento di 300 milioni di euro del fondo di finanziamento ordinario e,  come ha sottolineato la Crui (la conferenza dei Rettori), questa “inopinata diminuzione delle entrate dallo Stato provocherà lo sforamento dei bilanci di più della metà degli Atenei italiani”.

Come si vede, per gli aspiranti professori le prospettive sono estremamente incerte e, ad aggiungere turbolenza circa l’esito finale, contribuiscono i numerosi ricorsi presentati al Tar – favoriti da norme e  regolamenti  adottati dal ministero − e di cui si attende l’esito. 

In conclusione,  ciò che sta accadendo evidenzia paradossalmente la scarsa considerazione che si ha  in Italia per la realtà universitaria.  Più in generale, è impressionante rilevare l’assenza di qualunque attenzione allo sviluppo di capitale umano, alla ricerca e all’innovazione nell’attuale dibattito in vista delle prossime elezioni politiche. Qualche tempo fa, il presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, per giustificare i tagli alla ricerca aveva detto “Perché dovremmo pagare uno scienziato quando produciamo le migliori scarpe del mondo?” e l’ex ministro dell’Economia, on. Giulio Tremonti, aveva affermato che “Con la cultura non si mangia”. Ciò che non si comprende è che, con la progressiva delocalizzazione del lavoro presso altri paesi (a partire da Est Europa e Asia) in cui la manodopera ha un costo decisamente inferiore, prima o poi le migliori scarpe del mondo verranno prodotte altrove. È solo questione di tempo. Al contrario, è solo la produzione di nuove idee, frutto dell’intelligenza e della libertà della persona, che può far avanzare il nostro paese e che può permettergli di reggere di fronte alla grave sfida economica attuale. 

Per questo stupisce che, nei confronti dello sviluppo di capitale umano e della ricerca, nei fatti,  tanti professori universitari − che certo non mancano nel governo e fra i commentatori di illustri testate giornalistiche – mantengano la stessa posizione gretta e miope. Un paese che non investe nel proprio futuro è un paese che ha deciso di avanzare progressivamente all’indietro. Problemi che richiedono una riflessione strategica e di lungo periodo hanno purtroppo tempi incompatibili con quelli di una politica che insegue confusamente il consenso immediato.