3 di notte. Sabato. Hai lasciato il telefono acceso, dopo la festa. Squilla. “Scusa, dormivi?”. Che stupido, cosa vuoi che faccia alle 3 di notte? È un tuo amico che chiama. Vi siete salutati da poco. “No, scusami, so che è tardi. Ma proprio non riesco a prendere sonno. Perdonami se ti sveglio, ma… hai presente la festa a cui siamo stati stasera? hai presente lei, quella di cui sono innamorato? Porca miseria, non riesco a prendere sonno! Non lo so, sono tornato a casa e mi si affollano tanti di quei pensieri… Ma non vedi tutti quelli che le ronzano intorno e la corteggiano? e lei, cretina, ci sta pure, non si rende conto che cercano solo un’avventura. Ma perché non si accorge di me? No, scusami, non è solo per lei che sto così: non lo so nemmeno io cos’è che mi manca, ma certe volte alla fine di una festa mi prende questa strana tristezza. È come se mi aspettassi ogni volta qualcosa di più che non arriva mai. Sono qua, con tutta la voglia di vivere che ho addosso, a rovinarmi il cuore, a sbattere i pugni, a non prendere pace. E a sentirmi, dopo essere stato in un mare di folla, solo come un cane. Mi capisci?”
Tu sei un suo amico. Svegliarti, ti sei svegliato. E ti sei pure immedesimato. È che non sai proprio cosa dirgli. Ti mancano le parole. Non ci sono molte parole da dirsi, in questi casi. Perché quella tristezza la conosci pure tu. E quel suo dolore ti ferisce il cuore. Ti verrebbe voglia di andare da lui, alle 3, col pigiama, e abbracciarlo. E rassicurarlo: “sono con te, ti capisco, succede anche a me”.
Certamente non ti sogneresti mai di chiudere il telefono e sentenziare: “Dunque, in questa telefonata il mio amico esprime la sua concezione pessimistica dell’esistenza. Egli nacque nella tal città il tal giorno. Sua madre faceva questo e quest’altro. La telefonata è durata 7 minuti e giungeva dal tal operatore. Notiamo anche una figura retorica: ‘solo come un cane’ infatti è una similitudine”.
Sarebbe da matti, vero? E allora perché i poeti li trattiamo così? Sono uomini anche loro, no? La telefonata non è altro che una rivisitazione della Sera del dì festa, scritta da un ragazzo di vent’anni di nome Giacomo Leopardi. Perché di quella poesia siamo bravi a fare interrogazioni del tipo: “Dunque, in questa poesia Giacomo Leopardi esprime la sua concezione pessimistica dell’esistenza. Egli nacque a Recanati nel 1798 eccetera eccetera”? Perché? Perché diciamo tante cose che scimmiottiamo dai paragrafi ma che non ci fanno entrare nel testo? Pavese era allarmato: «non si vede con che diritto, davanti a una pagina scritta, dimentichiamo di esser uomini e che un uomo ci parla».
Il punto è che molti «non sono capaci né disposti ad esser commossi dal poeta». Lo scrive proprio Leopardi: «sebbene intendano le parole, non intendono la verità, l’evidenza di quei sentimenti», perché «l’uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell’autore» si perde il meglio di una poesia, in quanto «non vede i rapporti che hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così». Qui sorge l’indicazione di metodo: non basta parlare di un autore; occorre parlare con un autore. Se la prima condizione per fare letteratura è che ci sia un testo (le parole dell’autore, non quelle sull’autore), la seconda è che ci sia un lettore: c’è bisogno di te! di un uomo, cioè, pronto a lasciarsi provocare dalle parole di un altro uomo.
Nella famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, Niccolò Machiavelli scrive a proposito di Dante, di Petrarca, di Ovidio: «io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono». Leggendo i loro amori, Machiavelli pensava ai suoi: «leggo quelle loro amorose passioni e quelli loro amori, ricordomi de’ mia». Chi non si paragona potrà prendere anche i suoi bei 9 a forza di ripetere che la Silvia di Leopardi è probabilmente una certa Teresa Fattorini e che le tre fiere di Dante rappresentano l’allegoria di non so che cosa: ma non sa niente né di amore né di paura. E perciò niente, nello specifico, di letteratura.
Conosco l’obiezione: se è vero che un testo non è un pretesto per arrivare al contesto, è anche vero che senza contesto un testo diventa un pretesto per dire quello che si vuole. Saremmo in balia di letture emozionali, poco “oggettive”. Siamo seri, però: la lettura oggettiva, semplicemente, non esiste; la lettura è un rapporto fra un lettore e un testo. Non c’entrano soggettività e oggettività, c’entra la lealtà con il testo: il rispetto dei suoi dati, tendenzialmente nella loro totalità. Ma non esiste un Foscolo oggettivo che è quello che sta sul libro: quello è il Foscolo soggettivo dell’autore del libro di testo, bevuto acriticamente da un insegnante ottuso. La lettura è un incontro, che implica tue domande e il rischio di un’ipotesi personale. Il rapporto che Dante ha con te, per esempio, non l’ha mai avuto nessuno in questi settecento anni: che cosa gli chiedi? cosa cerchi da lui? quale problema senti adesso e metti in gioco con lui?
“A noi spetta il compito di fornire strumenti”, dicono tanti insegnanti. Ti fermano nei corridoi e ti chiedono se hai già spiegato il testo argomentativo, e tu candido rispondi che “no, sto leggendo Leopardi”. Dovrebbero leggere La letteratura in pericolo di Tzvetan Todorov, che documenta quanto sia falso che «gli studi letterari hanno lo scopo principale di farci conoscere gli strumenti di cui si servono»: gli strumenti non sono il fine ma uno dei mezzi.
«Il lettore non specialista, oggi come un tempo, non legge le opere per padroneggiare meglio un metodo di lettura, né per ricavarne informazioni sulla società in cui hanno visto la luce, ma per trovare in esse un significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisca la sua esistenza; così facendo, riesce a capire meglio sé stesso».
Non si può leggere in seconda Odi et amo di Catullo soltanto perché in seconda si fa il genere-poesia e Odi et amo sta nell’antologia (nella sezione “amore”): quella poesia non è un mezzo per arrivare a un fine che è la conoscenza del genere-poesia! Io leggo una poesia per raccapezzarmi di più su me stesso e sul mondo: «essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano» (Todorov).
C.S. Lewis ha immaginato nelle Lettere di Berlicche che un diavolo esperto invii a un diavoletto alle prime armi, il nipotino Malacoda, delle istruzioni su come conquistare un’anima a Satana. E ci mette dentro anche la letteratura, perché esiste un modo diabolico di affrontarla, che si chiama «punto di vista storico»: «Il “punto di vista storico” significa, in poche parole, che quando un uomo dotto incontra una qualsiasi affermazione in un libro vecchio, la domanda che non si farà mai è se tale affermazione sia vera. Si chiede chi ha fatto sentire il suo influsso sul vecchio scrittore, e fino a qual punto l’affermazione s’accorda con ciò che ha detto in altri libri, e quale fase esso illustra nello sviluppo dell’autore, o nella storia generale del pensiero, e come incise su scrittori più recenti, e se è stato spesso capito male (particolarmente dai colleghi dell’uomo dotto), e quale è stata la tendenza generale della critica negli ultimi dieci anni, e quale è lo “stato attuale della questione”. Considerare l’antico scrittore come una possibile fonte di conoscenza – anticipare che ciò che egli disse potrebbe possibilmente modificare i tuoi pensieri o il tuo modo di comportarti – sarebbe rigettato come segno di un’indicibile semplicità di mente».
Quasi tutte le spiegazioni e le interrogazioni serie si svolgono esattamente in questo modo diabolico: se Leopardi riprende Petrarca oppure Orazio, se il Dialogo della Natura e di un Islandese anticipa temi della Ginestra, se siamo nella fase del pessimismo storico o di quello cosmico, se Leopardi risente del romanticismo o dell’illuminismo, se ha influenzato Ungaretti, qual è l’interpretazione di De Sanctis e quella di Binni e quella di Severino. Tutto utile, per carità. Ma sembra che tutto sia fatto per sotterrare la domanda più umana – e letteraria – di tutte: ma quello che sta scritto qui è vero o no? anche a me «si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa»? Leopardi, perché lo hai scritto? quale esperienza te lo ha fatto intuire? a me questa frase è mai successa? e come mi cambia? che sguardo nuovo introduce in me? come intercetta il mio modo di decidere cosa fare il sabato sera?
Non è lo spazio delle opinioni personali, ma quello in cui comincia l’interpretazione, ossia il rapporto fra un testo e l’extratestualità da cui esso prende origine. È il passaggio dalle parole alle cose: quando si capisce che studiare significa, in ultima analisi, chiudere i libri e iniziare a vivere.
(2 – fine)