Caro direttore,
com’è noto, un gruppo di lavoro interno alla coalizione di Mario Monti ha lanciato l’idea – circolata qualche ora e subito rientrata – della scuola aperta 11 mesi all’anno. Peccato, perché la proposta era ottima. Essa impica(va) infatti la distinzione, fondamentale da noi, tra curricolo obbligatorio di insegnamento-apprendimento ed attività di intrattenimento.
Infatti solo le lezioni sono rigidamente collegate ai programmi ed alle qualifiche dei docenti e questi alle graduatorie ed ai meccanismi storici di gestione del personale scolastico, di cui il collegio docenti è il fulcro. Inoltre la lezione implica la valutazione degli apprendimenti con tutto ciò che ne discende in termini di ruolo e di potere del docente classico.
Invece l’intrattenimento, come il prescuola o il doposcuola vigenti in tutta la scuola primaria ma a cui potrebbe essere assimilato lo studio personale assistito, l’assistenza nei compiti, nelle ricerche, lo svolgimento di attività laboratoriali etc. non necessitano del personale classico ma possono vedere e vedono a volte impegnato personale non laureato, volontari, associazioni territoriali. Inoltre le attività non strettamente curricolari sono seguite dagli alunni su base volontaria. Quindi la compresenza nell’edificio scolastico di attività strettamente didattiche e di altre attività non uguali per tutti e non standardizzate nella conduzione farebbe della scuola un vero centro di cultura e di servizi con costi sopportabili.
Il fatto è che proprio questa idea è vista come il fumo negli occhi dai difensori del potere sindacale e burocratico classico che da decenni assegnano ai docenti ed alla scuola solo ruoli definiti didattico-educativi (ma intesi in realtà come ruoli standard uniformati) con una sottigliezza che sfugge ai più, ma con le grandissime conseguenze pratiche che conosciamo. L’intrattenimento del figlio di una mamma che lavora tutto il giorno e tutto l’anno è un’azione didattico-educativa o è un servizio alla famiglia? Nel modello sindacal-burocratico è una attività estranea alla vera mission della scuola. Nel modello che occorrerebbe ragionevolmente diffondere è parte organica della gestione dei problemi giovanili. Certo va svolto con criteri adatti per chi gestisce bambini o giovani, ma non serve la laurea e la pagella.
Dietro lo scontro di modelli c’è il vero tema dei costi e del potere. La laurea, il concorso, la graduatoria nazionale, il collegio docenti, le 18 ore settimanali, i trasferimenti ecc., cioè tutte le componenti abituali della scuola morente sono tipiche del curricolo obbligatorio. E quindi solo esso garantisce la continuità dell’assetto con tutti i suoi totem. Per questo il teorema sindacal-burocratico-corporativo non vuole che nella scuola entrino attività non totalmente sotto il controllo della corporazione docente insediata nel collegio docenti, dove il docente statale che lavora in apnea per 18 ore la settimana e 9 mesi l’anno si oppone a tutte le problematiche e le misure che possono trattenerlo anche solo un minuto in più a scuola.
Ma la sinistra e la Cgil che erano i difensori del lavoro (“e noi faremo come la Russia, chi non lavora non mangerà…” cantavano le mondine) e odiavano i privilegi degli impiegati e degli statali, come hanno potuto diventare i più strenui difensori della corporazione degli insegnanti statali? La Cgil, ancora 40 anni fa, non contava nulla nel pubblico impiego dove invece erano fortissime Cisl e Uil e nella scuola lo Snals. In 40 anni la Cgil è diventata il principale sindacato del pubblico impiego grazie alla sua determinazione statalista e all’appoggio del Pci, che proprio negli anni 70 iniziò con la Cgil a cavalcare sistematicamente il meridionalismo come mezzo e fine dell’espansione del pubblico impiego e del ruolo onnipervasivo dello Stato.
Negli anni 70 la crescita della scolarizzazione, avvenuta come al solito in modo tumultuoso, vide sempre in primo piano (sui giornali ma non nelle aule) il tema del precariato, delle immissioni in ruolo, delle sanatorie, degli organici. La Cgil, che era nuova all’attivismo nel pubblico impiego, inizialmente si attestò nella difesa della qualità e della universalità della scuola, ma la Cisl manteneva il predominio puntando tutto sul precariato. Ben presto però la Cgil, dotata di uno spessore culturale maggiore degli altri sindacati, imparò a fare la sintesi tra pulsioni occupazionali e riforme della scuola e dello Stato. Con gravi lacune però, tra cui il doppio canale per l’immissione in ruolo è un esempio. Ancora più problematica era ed è la questione dei costi. E ancor più il crollo della qualità del personale. Ma certamente la Cgil ha acquisito l’egemonia culturale nel pubblico impiego, in particolare nella scuola di Stato e nella generazione di visioni e di linguaggi spendibili sul territorio.
Nella scuola tutta la vicenda si è intrecciata con la parola d’ordine culturale della magnificenza del tempo pieno e con l’espansione dell’orario obbligatorio delle lezioni, diventato con le sue 1000 ore annue il più lungo d’Europa, contro la media Ocse di 800 ma con punte di eccellenza anche inferiori a 700. Questo fatto, coniugato con lo strenuo mantenimento del tempo docenza a 18 ore settimanali (22 ore nelle elementari), ha consentito la continua espansione del numero dei docenti anche a fronte del continuo calo degli alunni.
Ancora oggi sentiamo che Bersani vuole “tenere aperte le scuole tutto il giorno… per attività didattiche”. Qui è il morso del serpente. Infatti Bersani non vuole la scuola aperta tutto il giorno e tutto l’anno con innumerevoli attività (compreso l’intrattenimento dei figli di chi lavora) su basi opzionali. Bersani vuole invece sostenere la presunta mission della scuola e cioè l’espansione del curricolo obbligatorio uguale per tutti. Abbiamo visto la strenua opposizione e poi la restaurazione della quasi conclusa riforma Moratti che aveva portato il curricolo obbligatorio a 27 ore settimanali introducendo il concetto del core curriculum e delle attività opzionali. Tutto è stato ripristinato dal ministro Fioroni e poi dalla Gelmini che non voleva scontri col sindacato. L’ideale per la Cgil e per il Pd andrebbe comunque oltre le 30 ore settimanali attuali. Sarebbe il tempo pieno obbligatorio uguale per tutti, come esige lo stanco rito dell’uniformità livellatrice. Forse, ancora di più che l’egualitarismo (meglio: la mirabile sintesi incarnata dalla Cgil di ideale umanistico, occupazionale e statalistico) lo vuole l’espansione senza fine degli organici e della docenza “onorifica” a tempo ridotto.
Ma il punto più debole del “sindacal-burocratismo scolastico” è proprio là dove questo sembrerebbe più forte e cioè nella difesa delle esigenze della mamma lavoratrice. Quando sento la strenua difesa del tempo pieno in nome della mamma lavoratrice mi cadono le braccia, perché in 30 anni ho visto mille volte quanto si arrabbino le mamme lavoratrici per la chiusura attuale delle scuole per circa 4 mesi l’anno (tre mesi in estate più Natale e Pasqua, più ponti e superponti) e gli sforzi che i comuni fanno per mettere in campo i centri estivi sempre insufficienti seppure a pagamento. Tra l’altro il tempo pieno termina alle 16.30 alle elementari ed alle medie si svolge solo due pomeriggi alla settimana. Cosa fa la lavoratrice madre che termina tutti i giorni alle 17.30?
Il Pd vuole scuole aperte “per la didattica” e contemporaneamente nega all’intrattenimento (prescuola e postscuola) valenza didattica obbligando i comuni a svolgerlo. Ma allo stesso tempo attribuisce solennemente valenza didattico-formativa alle due ore al giorno di intervallo mensa delle elementari dove, nei cortili assolati o nei corridoi bui dei giorni piovosi, i bambini giocano mentre le maestre chiacchierano.
Che vergogna. Si parla poi di fondi statali investiti nella costruzione e manutenzione delle scuole che tutti sanno essere a carico di comuni e province. Da dove questa insistenza? Dal fatto che in mezza Italia non si fa né costruzione né manutenzione e le scuole cadono a pezzi perché comuni e province spendono solo per stipendi a gente che non serve.
Certo che cambiare davvero senza creare sconquassi non è semplice. Eppure lo potrebbe essere, purché non si tema di sembrare banali e quindi finire sotto le affilatissime spade dei professoroni di alta qualità difensori dello statu quo.
Ad esempio ridurre le ore di lezione da 60 a 45 minuti consentirebbe di introdurre per tutti il sabato libero con 4 ore e mezza di lezione negli altri 5 giorni canonici, come ad esempio avviene in Baviera o Finlandia o Danimarca, dove lo studente è molto meno stressato che da noi ed impara di più. Il tesoretto di tempo docenza risparmiato potrebbe in parte essere usato per risparmiare, in parte per attività mirate di recupero, in parte per espandere l’offerta formativa opzionale ed anche l’intrattenimento davvero necessario per genitori che lavorano e per bambini e ragazzi poco gestiti. Infatti a parità di spesa, svolgendo 30 ore settimanali di 45 minuti, il curricolo annuale passerebbe da 1000 a 750 ore annue, assolutamente europee, ed ogni docente risparmierebbe 4,5 ore settimanali alle medie e superiori e 5,5 ore settimanali nelle elementari lasciando invariato il contratto. Proprio questo risparmio potrebbe essere lasciato alla libera decisione dell’autonomia scolastica e quindi essere giocato sulle effettive esigenze dell’utenza.
Una prospettiva del genere sarebbe facilmente applicabile. Molto più difficile è cambiare il contratto del personale della scuola di Stato, che sarebbe il vero strumento forte di innovazione, equiparando il personale statale a quello regionale o almeno introducendo la figura del docente a tempo pieno su basi volontarie.
Il pessimismo continua a prevalere; io invece ho l’impressione che ormai le voci che si levano a smascherare il quadretto, costosissimo e inefficientissimo, dei difensori della scuola attuale vadano moltiplicandosi, e che la deflagrazione del sindacal-statalismo forse sia vicina.