La «solare, brava e bella» Caro – come gli amici chiamavano Carolina Picchio – 15 anni, venerdì notte ha deciso di metter fine alla sua vita. Le motivazioni potrebbero essere contenute in una lettera che è all’esame degli inquirenti e che ora fa parte del fascicolo aperto contro ignoti per istigazione al suicidio. Di mezzo, come già altre volte è successo, ci sono twitter e facebook, appendici virtuali della vita che spesso e volentieri abbattono la barriera della finzione, creano rapporti personali, li distruggono, veicolano messaggi indesiderati che sfuggono completamente al controllo. E che, come potrebbe essere successo nel caso di Carolina, sono l’ultima goccia che avvelena la vita. Fino a renderla insopportabile. Carolina, dicono gli investigatori, ha lasciato pagine sofferte. «Scusate se non sono abbastanza forte, mi dispiace» ha scritto la ragazza prima dell’addio. 



«Penso che ci siano ragioni che non possono essere discusse a livello di opinione pubblica, tranciando giudizi come ho visto fare sui giornali» dice Giorgio Chiosso a Ilsussidiario.net. «Il rumore provocato rischia di oscurare il dramma di una realtà profonda come l’animo di quella povera ragazza. Ciascun caso, e a maggior ragione se ha esiti così tragici, ha una sua fisionomia che è troppo facile fraintendere, banalizzare, ridurre a schemi».



Fermiamoci, lei dice, rispettosamente sulla soglia.
Sì. Indirettamente il dramma di Carolina Picchio è un richiamo all’esame di coscienza di ciascuno di noi e credo che sarebbe inopportuno esprimere giudizi.

15 anni è ancora l’età più difficile, vero?
Se spostiamo il discorso dal caso specifico di Carolina al caso più generale del passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, allora il senso del disagio, il tumulto del cambiamento che sono propri di quell’età meritano senz’altro una riflessione. Diventare adulti è difficile, oggi più di ieri. Non è un caso che il triennio della scuola media, alla quale va aggiunto anche il primo biennio delle superiori, siano il periodo più controverso e complicato.



Nella morte di Carolina Picchio i social network hanno giocato una parte ambigua. Si punta il dito su twitter, su facebook e su chi li ha usati, anche se non è così semplice.
Il caso di Carolina Picchio fa il paio con gli episodi di Andrea, studente in un liceo di Roma, suicidatosi nel novembre scorso, e di un altro studente di 14 anni che si uccise a Ischia qualche tempo fa. Tre casi che si somigliano perché questi giovani sarebbero stati tutti e tre vittime di atti di bullismo, colpiti da messaggi trasversali, ambigui. Il fenomeno ora si colora di tecnologia, e su questo è doveroso fare una riflessione, ma le caratteristiche sono quelle di sempre: uno o più persecutori si accaniscono su una vittima e questo avviene purtroppo nel silenzio, un po’ omertoso, delle loro relazioni prossime.

Perché c’è connivenza, secondo lei?

Perché fa comodo a tutti: ai persecutori perché agiscono indisturbati, a genitori e docenti perché sminuendo il problema o facendo finta di nulla non vanno a impelagarsi in questioni difficili da risolvere. La prima cosa da fare è creare una cultura che rompa questa logica omertosa: ogni caso di bullismo va denunciato, con tutta la forza possibile, all’autorità scolastica, ai genitori, ai compagni non consenzienti.

L’adolescenza è segnata da un fortissimo desiderio di riconoscimento. Come interferisce uno strumento di comunicazione che interessa una platea teoricamente illimitata di spettatori anonimi?
Alimentando il desiderio che lei ha citato, ma anche, potenzialmente, ingannandolo. Uno degli aspetti più pericolosi è appunto la confusione che si ingenera tra realtà e virtualità. Oggi molti giovanissimi vivono nella seconda, che comporta una identificazione tra il soggetto, la macchina e il destinatario dei messaggi. Il conto, però, non torna. Pensiamo alla differenza tra l’«amicizia» che realizzo in rete, che posso eliminare con un semplicissimo clic, e la complessità e la ricchezza dell’amicizia che c’è nella «realtà-realtà» dei rapporti interpersonali fatti di sguardi, parole dette, prossimità corporea. Io credo che oggi gli adulti educatori debbano aiutare i ragazzi soprattutto a fare un grandissimo bagno di realtà.

Che cosa intende?
Vede, si può anche giocare con la virtualità e tutti da adolescenti lo abbiamo fatto; non è necessario avere le nuove tecnologie, basta immedesimarsi. Ma alla fine di questi sogni ci riscoprivamo immersi nella realtà, oggi invece c’è chi si perde nella virtualità di uno schermo che dà l’impressione di poterla sostituire, ma senza riuscirci.

Quali sono i compiti specifici di docenti e genitori?
Parto da questi ultimi. La crisi dell’educazione oggi è una crisi dell’adulto che non ha più attenzione, pazienza, passione per il minore che cresce. Io credo che questo non sia tanto un problema di tempo disponibile, ma di mentalità. Quanto più l’adulto è Narciso, cioè rivolto alla gratificazione di sé, al soddisfacimento delle proprie esigenze, tanto meno guarderà al figlio come persona da educare. Nella peggiore delle ipotesi anzi sarà convinto che dando al figlio delle cose materiali, il «problema» si risolva.

Quindi?
Vuol dire che per prima cosa i genitori dovrebbero stabilire coi figli un rapporto quotidiano vero, fatto di dialogo. Uno sguardo distratto al momento scolastico, alle delusioni che possono aver accompagnato la giornata, non basta. Ma questa compagnia non si può improvvisare a 14-15 anni.

E per quanto riguarda gli insegnanti?
Il loro primo compito è fare bene gli insegnanti. Questo fa crescere negli studenti la responsabilità personale. La scuola chiede loro certe prestazioni − sto ovviamente semplificando − e queste prestazioni sono lo strumento della costruzione critica della personalità.

Una «vera» realtà che mette alla prova lo studente.

La scuola è proprio questo. Poi si sa che le prove possono essere diverse, differenziate per capacità: e allora diciamo che la scuola dev’essere personalizzata, eccetera. Vero. Ma la prima grande azione educativa è che i docenti facciano innanzitutto il loro lavoro di docenti, più che mettere astrattamente a tema i valori in quanto tali. Ciò che educa di più è il quotidiano esercizio della responsabilità e del rispetto degli altri, che sono poi le condizioni elementari della vita adulta.

Nella vicenda di Carolina tornano quelle forme di pressione strisciante che sono proprie del bullismo. C’è un compito che spetta innanzitutto alla scuola?
Il bullismo non si vince se si pensa che riguardi solo la scuola: è un problema generalizzato, tocca le famiglie, la scuola, i gruppi giovanili a costituzione spontanea. La prima cosa da fare, dentro o fuori la scuola, è spezzare il cerchio del silenzio. Ci vuole il coraggio di denunciare. E questo anche nell’interesse dei persecutori, che a modo loro sono vittime di una situazione. E guardi che non intendo giustificarli; anzi sono convinto che la scuola debba assolutamente prendere decisioni di natura disciplinare. Ma questo è possibile solo se si scioglie quella odiosa cappa di omertà che purtroppo avvolge di solito questi eventi.

(Federico Ferraù)

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