Sono già apparsi, suscitando ampio dibattito, i dati dell’indagine Piaac-Ocse, realizzata, per l’Italia, dall’Isfol. Una ricerca preziosa perché analizza, in 24 paesi europei affini al nostro, il livello di competenze chiave della popolazione tra i 16 e i 65 anni. Il focus è mantenuto sulla capacità di usare saperi e abilità per leggere la realtà in cui vivere e interagire. Si è cercato, in particolare, di misurare literacy e numeracy, ormai ben note da quando l’Indagine Pisa è entrata nella nostra coscienza collettiva.
Va da sé che le criticità individuate sono pesanti: i nostri “adulti” mostrano la più bassa esposizione all’apprendimento formale e informale (meno della metà della media dei paesi Ocse); sono carenti nelle competenze di lettura, scrittura e calcolo e in quelle di decisione, di apprendimento al lavoro e di leadership. Nelle competenze linguistiche siamo all’ultimo posto (dopo Cipro) con 250 punti, quando la media Ocse è più alta di oltre 20 punti; né vanno meglio le competenze di numeracy, che evidenziano un punteggio significativamente inferiore ai nostri competitors. Gli scarti più imbarazzanti si palesano nella differenza di competenze tra i nostri laureati e quelli degli altri paesi. Inoltre, un italiano adulto su due è senza diploma, contro meno di uno su tre nella media Ocse, e la quota di sotto-qualificati italiani (22%) svetta in cima alla classifica Piaac, a distanza dalla più tollerabile media europea del 13%.
Ci sarebbe di che scoraggiarci se non fosse che si intravedono anche alcuni elementi di positività: rispetto alle precedenti indagini Ocse (Ials 1994-98 e All 2006-08) il divario nelle competenze alfabetiche tra giovani e anziani si riduce passando da 63 a 30 punti, così come quello tra uomini e donne (e ora le giovanissime sorpassano i maschi anche in matematica). Conforta sapere che i soggetti più anziani riescono a contenere meglio il deterioramento delle competenze di quanto non avessero fatto in passato. Inoltre, l’analfabetismo diminuisce, riducendo la quota di popolazione dei livelli più bassi, mentre l’uso delle competenze di Ict e di problem solving nel lavoro presenta uno dei migliori piazzamenti tra i Paesi partecipanti.
Gli aspetti positivi, tuttavia, non possono fare velo alle difficoltà dell’Italia quando si considera la differenza di risultati e il deficit accentuato al Sud e nelle Isole. Forse, perché il perdurare della disoccupazione, elevatissima nel Meridione, conduce alla riduzione dei livelli di competenza: i disoccupati di lungo periodo, ad esempio, scontano un punteggio assai più basso dei disoccupati di breve periodo.
Anche da qui emerge l’evidenza che uno scarso livello di competenze chiave sia indotto dall’inattività dei giovani che non esercitano e non accrescono le loro capacità (il punteggio di chi si è dedicato ad attività di formazione o è occupato è più alto rispetto a chi è rimasto fermo). Questo è vero soprattutto per gli oltre 2 milioni di giovani tra i 16 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (Neet) e per i 700mila drop out che ogni anno abbandonano gli studi.
Se è vero, come ci suggerisce l’indagine, che chi non lavora e non si forma non riesce bene a migliorare le proprie competenze, questa coscienza dovrebbe portare a operare più decisamente per contenere gli abbandoni e mantenere i giovani a rischio (più dotati di intelligenze pratiche e meno di quella cognitiva) nel circuito attivo di formazione delle competenze. Ciò, si fa innanzitutto potenziando la formazione continua, ma anche cercando di estendere la qualità e la quantità del nascente apprendistato in diritto-dovere e della nuova realtà, ormai a regime, dell’Istruzione e formazione professionale (IeFP). Quest’ultima, minacciata dalla facile deriva della scolasticizzazione forzata di un settore nato proprio come catalizzatore alternativo per i delusi dei tradizionali percorsi disciplinari.
Diversamente, queste attenzioni non emergono nel decreto lavoro di giugno e nel decreto scuola, approvato in settembre, che non sembrano puntare sugli strumenti più ovvi sui quali può essere utile investire per creare benessere e sviluppo. Aspettiamo, almeno, con incrollabile speranza, che i 560 milioni promessi nel triennio 2013-15 (poco più di 186 milioni l’anno) migliorino la qualità dell’istruzione dei diplomati rispetto a quella degli altri paesi.