Continua incessante e tragico il susseguirsi dei dati sulle difficoltà dei giovani del nostro paese. Alti tassi di dispersione scolastica, una disoccupazione giovanile che passa dal 20% del 2007 al 40% attuale, gli sconfortanti dati della recente indagine Piaac-Ocse e così via.

Davanti a questo scenario sconfortante ci si aspetterebbe che il dibattito pubblico fosse fortemente concentrato nell’identificazione della cause del fenomeno e nella ricerca delle soluzioni che si possono realisticamente mettere in campo. Purtroppo invece una scarsa conoscenza delle cause stesse dei fenomeni unita a un tasso ideologico ancora elevato sembrano impedire la ricerca di soluzioni efficaci.



È sintomatico che il dibattito continui a avvitarsi contrapponendo il modello scolastico statale e licealista e il sistema di formazione professionale sussidiario incentrato sull’alternanza scuola-lavoro, basato su metodologie induttive che partono dall’esperienza, attento alla personalizzazione dei percorsi. Analoga è la contrapposizione tra impresa e sistema educativo. Basti pensare alla concezione che riguarda il tema dell’apprendistato (e in particolare di quello per i giovani). Da un lato vi è chi sostiene che l’inserimento nel mondo del lavoro è un fenomeno da ritardare nel tempo in quanto l’impresa non sarebbe abilitata ad essere soggetto educativo, dall’altro ci sono coloro che ritengono che sia sufficiente inserire tout-court i giovani in impresa per risolvere il problema. 



L’esito di queste contrapposizioni impedisce di trovare le soluzioni adeguate e così crescono le difficoltà dei nostri giovani e quelle del nostro sistema produttivo che, tra parentesi, continua a evidenziare la difficoltà di trovare figure professionali (parliamo di decine se non centinaia di migliaia di persone) da inserire nei propri organici.

Si tratta dunque innanzitutto di un problema culturale prima che legislativo e regolamentare. Infatti dal punto di vista legislativo esistono da anni due provvedimenti che se fossero stati portati a un adeguato livello di attuazione avrebbero potuto dare un contributo nella direzione giusta: la cosiddetta legge Moratti (53/2003) e la legge Biagi (30/2003).



Queste due leggi potevano essere l’architrave della via italiana al sistema duale. Anche in questo caso infatti la maggior parte dei fautori del mitizzato sistema duale tedesco sembrano non aver contezza della diversità del nostro tessuto produttivo e istituzionale. Dal punto di vista produttivo non può sfuggire che la dimensione media delle imprese italiane è di circa tre volte inferiore a quella tedesca, e questo implica che l’alternanza scuola-lavoro e lo stesso apprendistato debbono avere caratteristiche diverse. Analogamente quando si parla di centri per l’impiego pubblici si tralascia di ricordare che in Germania vi è una forte integrazione al loro interno tra le diverse politiche dell’orientamento, dell’erogazione di percorsi formativi e del collegamento tra domanda e offerta, mentre in Italia essi hanno avuto una lunga storia incentrata sugli aspetti di natura amministrativa (da questo punto di vista speriamo che l’attuazione della c.d. youth guarantee ne prenda atto). 

Al contempo in Italia esiste un sistema di istruzione e formazione professionale (Iefp), nato prevalentemente dal privato sociale, che ha dimostrato di saper svolgere bene il ruolo di connessione tra sistema educativo e mondo del lavoro (su questo tema non mi soffermo rimandando a due articoli pubblicati su queste pagine (lo scorso 22 agosto e il 13 ottobre 2013). Ma lo stesso sistema formativo, unitamente a quello delle agenzie per il lavoro, rappresenta oggi la via per far decollare l’apprendistato. 

Oggi l’apprendistato non decolla in Italia per una serie di motivi che vanno dall’eccessivo peso burocratico, che insiste sulle spalle delle imprese che assumono apprendisti, a un livello retributivo inadeguato per un contratto che voglia essere realmente a causa mista (formativo e lavorativo insieme), al mancato riconoscimento del ruolo delle agenzie formative e del lavoro.

È da notare che, pur in assenza della dovuta attenzione a livello istituzionale, esistono già esempi virtuosi che hanno intrapreso queste strade; nel mese di settembre 2013 Federlegno ha assunto nel suo contratto norme specifiche per l’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale che prevedono l’applicazione di percentuali retributive che vanno dal 65% all’85% dell’importo che spetterebbe secondo le previsioni della contrattazione collettiva di riferimento dell’impresa. Analogamente, in Piemonte i sindacati confederali e le rappresentanze datoriali hanno firmato un accordo che prevede l’abbattimento della retribuzione dell’apprendista con percentuali che vanno dal 20% al 25% rispetto alla retribuzione contrattuale. In alcune Regioni (ad es. in Piemonte e in Lombardia) inoltre i centri per l’impiego hanno strutturato una filiera di servizi di politiche attive attraverso una stretta collaborazione con gli operatori privati accreditati.

È necessario ora che anche il governo assuma con più decisione la strada di rendere accessibili sia il canale della formazione professionale in diritto-dovere sia l’apprendistato nelle sue diverse forme. 

In entrambi i casi si può agire sia sul decreto scuola, sia sulla legge di stabilità.

Per quanto attiene all’apprendistato, pur con modalità differenti a seconda delle tipologia, occorre:

1. riconoscere l’irrinunciabile funzione educativa, sociale e di sviluppo occupazionale rappresentata dal contratto di apprendistato (con particolare riferimento alle forme finalizzate al conseguimento di titoli di studio);

2. stabilizzare e rendere certo il quadro normativo troppe volte corretto e riformato negli ultimi anni;

3. diminuire il carico burocratico a carico delle aziende;

4. allentare il vincolo all’impegno di assunzione al termine del periodo dell’apprendistato;

5. favorire un abbattimento dei costi per l’impresa che assume in apprendistato anche attraverso una riduzione ad hoc del cuneo fiscale tra lordo erogato e netto percepito;

6. integrare gli incentivi all’assunzione ed alla stabilizzazione già previsti dal quadro normativo con ulteriori misure atte a sostenere lo sviluppo di strutture e le competenze aziendali dedicate alla formazione. 

È irrinunciabile garantire e sostenere adeguatamente il ruolo delle istituzioni formative quali soggetti responsabili del coordinamento del percorso formativo, del monitoraggio dell’apprendimento e della certificazione degli esiti nonché dell’erogazione di quei contenuti che non è possibile apprendere in impresa;

7. aumentare il numero delle qualifiche professionali per renderle maggiormente coerenti con le diverse specializzazioni del sistema produttivo;

8. prevedere un’adeguata flessibilità nelle modalità di erogazione didattica, comprendendo anche la possibilità di erogazione attraverso processi di formazione a distanza;

9. migliorare il rapporto tra strumenti quali il tirocinio extracurriculare e gli stage e l’inserimento in apprendistato;

10. promuovere strumenti che permettano ai tutor formativi e ai tutor aziendali di cooperare per il raggiungimento di un adeguato livello di competenze dell’apprendista. 

Si tratta di strumenti semplici, alcuni a costo zero, che permetterebbero all’istituto dell’apprendistato, da tutti citato come il canale privilegiato per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di diventare effettivamente uno strumento utile ai giovani e alle imprese, in analogia ai sistemi educativi duali adottati con successo da altri paesi europei. Solo così l’apprendistato diverrà canale formativo ad indirizzo professionalizzante realmente alternativo all’istruzione e formazione professionale ordinaria (formale) per tutti quei giovani che intendono completare i propri studi in condizione lavorativa e per tutte quelle imprese che intendono con questo strumento acquisire e sviluppare i nuovi talenti.

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