Mentre, tra mille difficoltà di ordine istituzionale, risuona la convinzione che uno Stato di diritto è tale nella misura in cui è capace di “riconoscere” e “garantire” i diritti dei propri cittadini, si assiste, spesso attoniti e basiti, ad azioni legislative che raccontano un’altra storia.



In ordine temporale giunge il decreto scuola 104/2013 che ha popolato gli ultimi tempi fra innumerevoli consultazioni, spazi di apertura, dissensi e smentite, emendamenti e stralci, fiumi di parole che vedono però immancabilmente la grande assente, la famiglia. Essa a) possiede una sua specifica e originaria dimensione di soggetto sociale che precede la formazione dello Stato; b) è la prima cellula di una società e la fondamentale comunità in cui sin dall’infanzia si forma la personalità degli individui; ricordiamo a questo proposito che la Repubblica non “attribuisce” i diritti alla famiglia, ma si limita a “riconoscerli” e a “garantirli”, in quanto preesistenti allo Stato, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo o secondo quanto dispone l’articolo 2 della Costituzione; c) in Italia, come è normale che sia, la responsabilità educativa spetta alla famiglia che ha in capo a sé il dovere e dunque il conseguente diritto di esercitare liberamente la propria scelta educativa. 



Il decreto n. 104, pensato da una classe politica che saggiamente riporta all’attenzione il tema scuola nell’intento di produrre un atto migliorativo, lascia degli interrogativi molto semplici a cittadini che forse ormai sono stati abituati a registrare impotenti l’assenza di risposte certe. 

È naturale domandarsi se un decreto di questa portata e soprattutto chi lo licenzia abbia presenti quei principi fondanti lo Stato di diritto che ha scelto di servire e che oggi sembra ignorare:

1. Uno Stato che riconosce la libertà di scelta educativa dei genitori, all’art. 30 della Costituzione.



2. Tale diritto si può esercitare unicamente nell’ambito di un pluralismo educativo, possibile questo solo ed esclusivamente se è favorita e garantita la presenza, nel sistema scolastico di istruzione e formazione, delle scuole pubbliche statali quanto delle scuole pubbliche paritarie superando ogni ostacolo economico e ideologico. Nello specifico, la qualificazione oggettiva del servizio dell’istruzione come “pubblico” è che non è tale in quanto gestito da un soggetto statale, ma in quanto servizio di interesse generale, come indicato dal Consiglio di Stato. Di conseguenza ciò che qualifica un servizio come pubblico è una caratteristica intrinseca allo stesso, non dipendente dal soggetto gestore. Che quest’ultimo possa avere una fisionomia varia e distinta si evince dal principio di sussidiarietà orizzontale, che riconosce l’autonoma iniziativa privata, e nello specifico dall’art. 118 della Costituzione.

3. Un pluralismo educativo riconosciuto e garantito da una legge sulla parità che non concede in modo indiscriminato a chicchessia di far parte del sistema nazionale di istruzione, bensì solo a quelle scuole che rispettano le condizioni ben specificate dalla legge 62/2000 art. 1 comma 4: “La parità è riconosciuta alle scuole non statali che ne fanno richiesta e che, in possesso dei seguenti requisiti, si impegnano espressamente a dare attuazione a quanto previsto dai commi 2 e 3 (…)”.

4. Tutto ciò è suggellato dall’art. 118 della Costituzione italiana, che ben specifica il principio della sussidiarietà, e dall’art. 3 della stessa Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Ancor meglio l’art. 33 della Costituzione dice chiaramente al comma 3: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Una lettura pregiudizievole, e soprattutto gravemente lesiva della famiglia e dei reali compiti di uno Stato di diritto, forza l’inciso di un comma che di diritto e di fatto va letto come parte di un articolo ben più ampio e complesso e assieme a quanto abbiamo sopra specificato.

Bene affermavano i nostri Costituenti nel leggere quel “senza oneri per lo Stato” che se lo Stato non ha l’obbligo ancor meno ha il divieto di intervenire in tal senso. Anche una lettura miope e restrittiva del testo che ci induca ad intendere l’inciso “senza oneri per lo Stato” come un non intervento da parte dello Stato, non può prescindere da un necessario collegamento a) al verbo che lo regge e cioè istituire – come peraltro di fatto già è (lo Stato mai è intervenuto nei costi di istituzione di scuole private anche se riconosciute dallo stesso paritarie) b) all’unico e reale diritto riconosciuto dalla Costituzione (che si limita semplicemente a prendere atto dello status de facto) e che è il solo a dover essere garantito: la libertà di scelta educativa che spetta alla famiglia.

Abbiamo, così, guardato a questo decreto come alla possibilità di rompere un meccanismo che negli anni ha alimentato pregiudizi, luoghi comuni (scuola paritaria alias scuola privata alias diplomifici; scuola privata alias scuola per i ricchi; allievi di serie A e di serie B; docenti alias ammortizzatori sociali), inutili e dannose conflittualità; politiche di spreco; slogan e ricette da talk show che in realtà fiaccano la famiglia italiana nella sua dignità ritenendola incapace di esercitare il proprio diritto di scelta educativa alias responsabilità educativa. Perfino il Parlamento di Strasburgo, con due risoluzioni − una del 1984 e l’altra del 2012  − ha richiamato gli Stati membri perché non pratichino alcuna discriminazione e rendano reale l’esercizio del diritto alla libertà di scelta educativa che è in capo alla famiglia.

Per questo il decreto scuola che avrebbe potuto colmare un gap, che vede solo l’Italia quale unica eccezione in Europa ad escludere ancora la famiglia e a tradire la libertà di scelta, ha il sapore amaro di un’occasione persa.

La buona scuola pubblica è statale e paritaria; la famiglia deve esercitare il proprio assoluto diritto di scelta senza vincoli economici, in quanto già è contribuente del fisco; l’interazione tra scuole pubbliche statali e pubbliche paritarie porta ad una seria definizione delle rispettive mission e dei rispettivi piani dell’offerta formativa, a tutto vantaggio del diritto di scelta delle famiglie, della crescita educativa dei singoli e pertanto della società. 

A onor del vero occorre riconoscere che quando si è trattato di sancire il divieto di fumo nelle aree esterne delle scuole l’art. 4 del decreto 104/2013 si è ricordato della “parità” tra “istituzioni scolastiche statali e paritarie“. Ma sono i fondi stanziati per l’acquisto dei libri di testo (art. 6), per il wireless nelle scuole (art. 11), per i laboratori scientifico tecnologici (art. 5 comma 4) … che il decreto legge 104 riserva esclusivamente alle “istituzioni scolastiche statali”.

Con riferimento poi alle misure previste dall’art. 6 del decreto, “al fine di ridurre la spesa per l’acquisto dei libri di testo”, si ricorda che nell’ordinamento italiano tali interventi, strumentali al pieno godimento del diritto di istruzione, rientrano nel c.d. “diritto allo studio”, ambito nel quale (a partire dall’art. 42 del Dpr 616/1977), vige l’obbligo di assoluta parità di trattamento degli alunni, qualunque sia la istituzione scolastica frequentata (come ribadito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 454/1994 proprio in materia di libri di testo). 

Il decreto prevede un potenziamento dei docenti di sostegno nella scuola statale. Se tale previsione esprime un’attenzione ai diritti degli alunni disabili, come mai un decreto licenziato da una governo “laico” che rappresenta tutti i cittadini senza alcuna discriminazione sembra dimenticare che ci sono anche 11.878 alunni disabili che frequentano le paritarie e che l’onere per l’insegnante di sostegno in tali realtà, a parte il caso delle primarie convenzionate, è a totale carico delle famiglie e delle scuole? Una ingiustizia sociale che ha il sapore amaro della “discriminazione” e non può lasciare indifferenti il pensiero che in questo caso l’esercizio della libertà di scelta educativa è negato due volte alla famiglia.

Se è il diritto dell’alunno quello che si vuole tutelare maggiormente, dobbiamo rivendicare la “assoluta parità di diritti per tutti gli alunni disabili”, qualunque sia la scuola frequentata.

Inoltre chi ritenga di poter sanare il deficit pubblico togliendo quei centesimi destinati alla scuola paritaria, sancisce il definitivo collasso del welfare, nel quale sarebbero coinvolte in primis le famiglie. Dal 2002 le sovvenzioni dello Stato per il settore paritario (oltre un milione di allievi) sono state mediamente poco più di 500 milioni di euro l’anno (497 milioni nel 2011, 483 nel 2012, ma versate solo in parte). Per il settore delle scuole statali (allievi circa 8 milioni) lo Stato versa oggi una cifra attorno ai 50 miliardi di euro. (…) Lo Stato risparmia annualmente e complessivamente 6.245 milioni di euro grazie alle paritarie. Come è giustificabile una simile contraddizione in uno Stato di diritto?

Si abbia il coraggio delle buone idee dalle scelte scomode ma dalle soluzioni efficaci.

Si abbia il coraggio di individuare il costo standard dell’allievo, e nelle forme che si riterranno più confacenti al sistema italiano; si dia alla famiglia la possibilità di scegliere fra buona scuola pubblica statale e buona scuola pubblica paritaria. Questo favorirà quella buona e necessaria concorrenza fra le scuole sotto lo sguardo garante dello Stato – cessando quel conflitto che lo vede assommare in sè il ruolo di gestore e garante – innalzando automaticamente il livello di qualità del sistema scolastico italiano e abbassando i costi.

Chiediamo ancora instancabilmente alla classe politica, soprattutto oggi in questa Italia cosi confusa e frammentaria, di dare ragione della centralità della scuola, con lucidità e lungimiranza, adottando decisioni di equità e di giustizia rispetto a tutte le esperienze proficuamente attive, dalla scuola materna all’università, e sostenendo il diritto dei genitori di scegliere l’educazione per i propri figli. Non si deve licenziare un decreto che dimentica di chiarire i rapporti tra famiglia e Stato e che non supera una errata sussidiarietà al contrario, della famiglia nei confronti dello Stato stesso.

Occorre restituire dignità di ruolo e di azione alla famiglia, affinché in un ordine armonico e naturale si possa costruire una alleanza educativa nella società, di cui la scuola è matrice, sostegno, possibilità di vero sviluppo.

“Finché gli italiani non vinceranno la battaglia delle libertà scolastiche in tutti i gradi e in tutte le forme, resteranno sempre servi (…) di tutti perché non avranno respirato la vera libertà che fa padroni di se stessi e rispettosi e tolleranti degli altri, fin dai banchi della scuola, di una scuola veramente libera” (Luigi Sturzo, Politica di questi anni. Consensi e critiche dal settembre 1946 all’aprile 1948).

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