Cinquant’anni fa, con l’inizio dell’anno scolastico 1963-1964, entrava in vigore la riforma della scuola media unica. Lo scopo era duplice: creare un’unica tipologia di scuola indistintamente per tutti i ragazzi in età 11-14 anni così da eliminare la precoce scelta che allora si poneva alle famiglie tra la scuola media con il latino, rivolta a chi era destinato agli studi, e la scuola di avviamento professionale per chi era invece chiamato a un rapido ingresso nel mondo del lavoro, e rendere effettivo il dettato costituzionale circa l’effettivo rispetto dell’obbligo scolastico fino al 14° anno di età.
La riforma era l’esito di un lungo e complesso dibattito che per tutti gli anni Cinquanta aveva visto contrapporsi due ipotesi tra loro alternative: diffondere capillarmente una sorta di scuola post elementare affidata ai maestri elementari oppure generalizzare la scuola media, privandola tuttavia del latino?
Non si trattava soltanto di due tesi elaborate da addetti ai lavori: ciascuna di esse era portatrice ed espressione di una precisa visione circa il futuro dell’Italia. Un futuro che, per i sostenitori del prolungamento della scuola elementare, non poteva e doveva rompere con l’ethos popolare, con i valori sobri e robusti della cultura contadina con cui tradizionalmente la scuola elementare era stata ed era in stretta relazione oppure, tesi sostenuta dai fautori della scuola media, un’Italia votata allo sviluppo industriale, alla civiltà urbana, al dinamismo economico e consumistico delle incipienti società avanzate?
La scelta cadde su questa seconda proposta con una decisione coraggiosa e lungimirante. La scuola che per un secolo era stata la scuola introduttiva al liceo (fino al 1940 si chiamava ginnasio inferiore) era chiamata ad una profonda e sotto molti aspetti radicale trasformazione: senza perdere – almeno questo l’auspicio – il suo carattere di scuola secondaria (oggi scuola secondaria di primo grado) era tuttavia immaginata non più come il tassello iniziale di un modello scolastico selettivo, bensì come il luogo generalizzato dell’apprendimento diffuso, caricato della responsabilità di individuare le qualità dei giovani allievi e operare, sulla base di queste, un efficace orientamento in vista dell’eventuale proseguimento degli studi o dell’avviamento a una professione.
La nuova scuola non ebbe tempo di assestarsi e fu quasi subito bersagliata di critiche tanto violente quanto – lo possiamo serenamente oggi a distanza di mezzo secolo – ingiuste. I professori, si disse, non capivano o non volevano capire i compiti fino ad allora inediti assegnati alla scuola media; lo Stato era troppo lento nell’aprire nuove sedi così da favorire la frequenza degli alunni, in specie quelli dislocati nelle aree più periferiche dell’Italia; i libri di testo restavano ancora quelli di prima e faticavano a entrare in sintonia con i nuovi programmi che snellivano tematiche tradizionalmente proprie della scuola media con il latino e introducevano nuove discipline come, ad esempio, le applicazione tecniche (oggi educazione tecnica, il legislatore manifestò molto coraggio nel pensare che tutti gli allievi dovessero familiarizzare con la cultura manuale).
Ma soprattutto la scuola media fu triturata dall’ossessione ideologica di chi, nei dintorni del Sessantotto (prima e poi), vedeva in ogni intervento riformatore la mano più o meno felpata degli interessi “capitalistici” e l’abile stratagemma del Potere (rigorosamente con la P maiuscola) per condizionare, manovrare e sfruttare le masse popolari. E quella scuola che aveva bisogno di essere accompagnata nella sedimentazione della propria identità finì per diventare un’occasione di scontro politico.
È un vero peccato che un passaggio così significativo della nostra storia più recente sia passato in queste settimane praticamente o quasi inosservato. La scadenza della ricorrenza cinquantenaria avrebbe meritato qualcosa di più. Perché se si volesse, questo “qualcosa di più” si potrebbe concretare in qualche specifica iniziativa di ricerca e di studio attraverso cui si scoprire tanti aspetti inediti intorno ai quali fare giustizia.
Per esempio si scoprirebbero i meriti di quegli insegnanti ai quali fu chiesto di tradurre in realtà una scuola molto diversa da quella per cui erano stati preparati. Spesso ingiustamente vilipesi perché “vestali della classe media” (come recitava il titolo di un volume spesso citato) essi seppero essere complessivamente all’altezza della situazione, disegnando – pur tra molte difficoltà – una scuola dalla nuova fisionomia pronta ad accogliere sia i Gianni e sia i Pierini, per restare alla metafora dei ragazzi di Barbiana forse un po’ troppo ingenerosi nella critica alla “professoressa”.
E si scoprirebbero altresì le militanze silenziose – mentre altri affollavano le assemblee della contestazione – di circuiti associativi ed editoriali (per esempio il Movimenti dei Circoli per la Didattica, la casa editrice La Scuola e la rivista “Scuola e didattica”) che si misero al servizio del nuovo progetto scolastico elaborando strategie didattiche e pedagogiche in grado di rispondere all’esigenza di una scuola – come fu detto efficacemente allora – “aperta a tutti e rivolta a ciascuno”.
Si scoprirebbero infine le passioni educative di tanti insegnanti che, entrati in servizio negli anni della riforma, coniugarono professione e impegno civile, concependo la propria condizione di “insegnanti” anche come cittadini attivi e, spesso, come veri e propri “maestri” di democrazia e di educazione alla cittadinanza.
La scuola secondaria di primo grado da qualche tempo è al centro di molte attenzioni e preoccupazioni al punto che qualcuno qualche anno fa propose di liquidarla. Per fortuna quel progetto non andò in porto, ma resta comunque aperta l’esigenza di un suo rilancio. Ripensarla per rafforzarla sarebbe il modo migliore per riconoscerle i grandi meriti che ha avuto nella storia più recente del nostro Paese.