Caro direttore,

Sono un’insegnante di scuola superiore con 34 anni di servizio. Dopo un lungo periodo di assenza dalla scuola, in cui ho svolto altri servizi per l’amministrazione, sono tornata in cattedra, trovando una situazione molto differente da quando l’avevo lasciata.

Vorrei condividere con i lettori del sussidiario l’osservazione sistematica di un particolare che potrebbe apparire di secondaria importanza, anche se personalmente mi sono convinta del contrario. Si tratta di come i miei allievi di prima e seconda superiore (più di 100: con la cattedra formato-Gelmini, per poter cumulare le 18 ore ho quattro classi diverse) tengono in mano la penna. 



Di questi alunni più dell’80 per cento non sa tenerla con la punta delle tre dita e la impugna scorrettamente. La cosa mi è saltata all’occhio in classe mentre facevo fare a tutti una serie di prove scritte per vedere a che punto erano, perciò ho potuto osservare attentamente la situazione. Mi sono un po’ informata tramite internet e ho visto che la presa scorretta della penna (con il pollice messo di traverso) è diventata di gran lunga la più frequente. Sono scorrette l’impugnatura detta “a morso”, a pollice in avanti, a pollice interno, ad archetto, ecc



Un’impugnatura di questo tipo in realtà costituisce una regressione allo stadio precedente all’opposizione pollice-indice (presa del cucchiaio) e rappresenta quindi una perdita rispetto ai movimenti fini delle dita; essa non solo non consente la fluenza del tratto, ma impedisce anche la corretta visione di quel che si scrive: il pollice infatti può coprire in parte ciò che viene scritto richiedendo sforzi adattativi. La difficoltà di visione produce così la torsione del busto o del collo in posizioni innaturali, angolature scorrette della visione rispetto al foglio e persino problemi di vista che alla fine richiederanno l’intervento dell’oculista.



Una conseguenza di questa situazione diffusa è il gran numero di studenti che non è in grado di scrivere in corsivo. Alcuni allievi mi hanno detto candidamente che i professori delle medie suggerivano loro di scrivere in stampatello, per non sforzare la mano e per produrre scritti leggibili. Cioè: invece di prevenire vel curare il malanno, lo si istituzionalizza. Moltissimi poi non usano la maiuscola o la scambiano sistematicamente con la minuscola, nella stessa parola utilizzano stampato e corsivo, con riflessi non solo sull’estetica della pagina, ma cognitivi (la cosa andrebbe meglio studiata). Oltretutto il tratto del corsivo è espressione della personalità.

Il fatto è che impugnature scorrette sono spesso all’origine dei disturbi della scrittura, cioè della disgrafia, uno dei Dsa (disturbi specifici di apprendimento). Le impugnature disfunzionali di solito si sviluppano spontaneamente nel bambino in ambiente prescolastico, per mancanza di controllo o per inadeguatezza di intervento correttivo, ma nella scuola primaria maestre consapevoli del problema dovrebbero reimpostare immediatamente la mano. 

Mi sono domandata qual è oggi l’apporto della scuola primaria alla corretta impostazione della scrittura, e mi sono ricordata che un tempo l’apprendimento della scrittura era preceduto da pagine di filetti, aste, cerchi, ecc., ma poi “si è buttato via il bambino con l’acqua calda”. Recentemente Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca, si è lamentato autorevolmente del fatto che nelle Indicazioni nazionali per il primo ciclo non sia presente la corretta grafia come obiettivo specifico della scuola primaria (si parla più genericamente di “acquisire le capacità manuali percettive e cognitive necessarie per l’apprendimento della scrittura”) .

Così da un po’ di tempo ipotizzo che a fronte dell’aumentare dei Dsa ci sia un disturbo specifico dell’insegnamento: credere che certe prassi della tradizione siano infantili, superate, prodotto di un modello negativo di scuola “che addestra”. Con sorpresa recentemente, in un corso di aggiornamento organizzato dall’Associazione Italiana Dislessia, ho ascoltato un pedagogista raccomandare caldamente la pratica delle “cornicette”, quelle che qualunque bambino fra i 4 e i 6 anni, ai miei tempi, faceva per gioco sulla carta a quadretti (ma l’adulto sapeva che sono fondamentali per l’allenamento dell’occhio e la percezione dello spazio della pagina). 

Penso cioè che sia giusto distinguere dislessici e disgrafici da coloro che non hanno potuto fruire di percorsi di apprendimento adeguati e rispettosi del loro processo di sviluppo. La scuola dovrebbe riconsiderare le metodologie utilizzate per insegnare la lingua scritta e, come ricorda anche la legge 170 sui Dsa, fondare tali metodologie su evidenze scientifiche rigorose e non su mode momentanee. È vero che ci sono stati dislessici e disgrafici anche in tempi remoti (per esempio Leonardo da Vinci probabilmente lo era), ma l’aumento attuale dei ragazzi con disturbi ci deve interrogare. 

Bisogna ricordare infatti che la scrittura non è un fatto naturale cui il cervello sia già predisposto, come il linguaggio, ma è un’invenzione umana capace di modificare il cervello (come emerge nel bellissimo libro di Maryanne Wolf Proust e il calamaro); ogni generazione che impara a scrivere ripercorre questa strada ex novo. A maggior ragione questo passaggio va presidiato nell’epoca dei pc e dei tablet, pena la regressione a una società e a una cultura precedenti all’invenzione della scrittura (dove il disgrafico e il dislessico se la caverebbero meglio degli altri), con le conseguenze non meramente funzionali bensì cognitive che questo comporta.

Non si vuole dire che la società dell’immagine e l’uso dei pc non ci abbiano aperto grandi opportunità: io ne ho tratto grande vantaggio anche in termini di organizzazione delle idee, di possibilità di rielaborare e di accesso alle informazioni. Oggi anzi al bambino disgrafico viene consentito l’uso del computer come strumento compensativo: si tratta di uno dei facilitatori che permettono al bambino di concentrarsi sul compito (per esempio scrivere un tema) senza spendere tutte le energie nella strumentalità (la grafia). 

In questo senso la tecnica offre molti rimedi. Mi chiedo però se non sia opportuno fare sì che la scuola primaria dedichi molto più tempo alla motricità fine della mano (calligrafia) per ridurre al minimo il numero dei bambini che arriva in quinta elementare con problemi che sarebbero stati almeno in parte risolvibili con un corretto insegnamento, per lo meno di come si impugna la penna. I disturbi hanno natura evolutiva e quindi ben accompagnati i ragazzi possono avere miglioramenti sensibili.

Purtroppo pare che negli Usa alcuni Stati recentemente abbiano abolito l’insegnamento del corsivo ritenendolo poco utile, in una società dove è più importante saper usare precocemente la tastiera: insegnare a scrivere è diventato anacronistico. Mi auguro proprio che da noi non si imbocchi questa strada, che tuttavia sarebbe molto coerente con l’ideologia del bon sauvage di tanta pedagogia novecentesca. Forse sono allarmista, ma forse invece con un occhio in parte esterno vedo cose che temo nessuno veda più, assuefatto e rassegnato al momento presente oppure incapace dell’atto di onestà intellettuale di ammettere quello che le vecchie maestre uscite dalle scuole magistrali sapevano benissimo.

 Lettera firmata

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