La Giornata mondiale dell’insegnante, indetta dall’Unesco per lo scorso 5 ottobre, ci ha portato un fiume di numeri e di dichiarazioni. Le condizioni peggiori restano quelle del Centro-Africa, dove ad un insegnante elementare corrispondono dai 70 ai 40 alunni. Mancano complessivamente a livello mondiale quasi 2 milioni di insegnanti. Ne servono altri 5 milioni per rimpiazzare i pensionandi. Drammatico resta il livello di preparazione. Molto diversa la situazione nei Paesi dell’Ocse e in quelli della Ue. In Italia non manchiamo di insegnanti, se è vero che la media effettiva è 1 insegnante per 9 alunni, contro gli 1/12 della Ue e gli 1/15 dell’Ocse e se è vero che alle spalle degli 800mila in servizio premono 200mila precari.
Il nostro problema è la qualità. Qui da decenni il Paese si aggira in un circolo vizioso. Il profilo dell’insegnante è definito dall’istituzione scolastica. E l’istituzione scolastica versa in una crisi profonda, per ragioni che queste pagine documentano ogni giorno e che libri in uscita a getto continuo tematizzano. I sindacati lanciano gridi di dolore sulla condizione socio-economica dei docenti, ma intanto si oppongono strenuamente a qualsiasi riforma del sistema e pertanto contribuiscono cinicamente a mantenere la professione docente in uno stato di frustrazione, di basso prestigio e di stipendi bassi.
L’ultima conferma di tale condizione viene dal 2013 Global Teacher Status Index della Fondazione Varkey Gems (Global Education Management System), una Fondazione privata con sede a Dubai. Il Rapporto ha valutato la reputazione sociale dei professori, dalle elementari alle superiori, in 21 Paesi. La classifica ci pone al diciottesimo posto. In cima alla graduatoria c’è la Cina, seguita da Grecia e Turchia. Gli Stati Uniti sono al nono posto, la Gran Bretagna al decimo, la Francia all’undicesimo e la Germania al sedicesimo. Non sono dati nuovi, se paragonati a quelli forniti dai Rapporti Ocse. Essi confliggono, almeno per quanto riguarda l’Italia, con la diffusa consapevolezza – risultiamo in testa insieme alla Finlandia – dell’importanza sociale e culturale decisiva della figura del docente.
Chi non vuole spezzare il circolo vizioso? Nessuno, si direbbe. È come chiedersi: chi vuole cambiare il modello educativo del Paese? Nessuno, si ri-direbbe! Per un mix di cause, che mischia interessi corporativi e culture profonde, rafforzati dentro un sistema che si alimenta della loro riproduzione.
Non è difficile scomporre e mettere in fila le cause e gli effetti, i quali a loro volta retroagiscono sulle cause. L’essenza del modello è il curriculum, cioè determinati contenuti disciplinari “somministrati” dai 6 ai 19 anni secondo pedagogie e didattiche specifiche e secondo modalità particolari di valutazione dei risultati.
L’organizzazione della didattica che ne deriva richiede una figura di insegnante da distribuire nella solitudine di rigide caselle orarie delle materie e delle classi di età, dotato della stessa preparazione, degli stessi diritti, degli stessi doveri, degli stessi stipendi, dello stesso cursus professionale, fondato sull’anzianità. Profilo professionale e organizzazione della didattica sono in corrispondenza biunivoca. Non si può cambiare il primo, senza cambiare la seconda. Questo lo sanno gli insegnanti, i sindacati, la politica, l’opinione pubblica, cioè, principalmente, i mass media. Insomma, lo sanno proprio tutti.
Questo ecumenismo conservatore dell’istruire e dell’educare si basa su una storia, che è stata incorporata nelle menti e che è divenuta cultura di lunga durata: quella dello Stato centrale nazionale, nella sua dimensione amministrativa, della partizione enciclopedica del sapere in perenne espansione, dell’organizzazione e dei metodi della produzione industriale. Esso produce un bacino elettorale di circa 10 milioni di persone, volte per ragioni diverse e convergenti alla conservazione del sistema così com’è e, perciò, del profilo professionale degli insegnanti, così com’è.
Questi ultimi si agitano, si frustrano, si deprimono, si arrabbiano, si appassionano, ma finora hanno delegato ai sindacati e ai partiti la difesa della loro causa. Una specie di “volgo disperso che nome non ha”. Si deve solo dire che se non si muovono loro, al loro posto non lo farà nessuno né per loro né per la scuola.