Nel suo intervento in Senato lo scorso 2 ottobre, il premier Letta, prima di ricevere la fatidica fiducia ha accennato anche alla scuola “che vorremmo”. Quale? Una scuola, ha detto, che soprattutto al Sud “permetta di vincere la grande battaglia contro la dispersione scolastica”. Per questo, ha continuato, sono stati stanziati i primi 15 milioni “per far sì che il reclutamento della scuola batta il reclutamento della strada; che tutti i nostri ragazzi abbiamo diritto al futuro con l’istruzione”. Ne deriva una immagine di scuola inclusiva, perno della coesione sociale, strumento della lotta alla piaga dell’insuccesso scolastico e della preoccupante diffusione, soprattutto al Sud ma non solo, del fenomeno dei Neet (giovani che abbandonano il percorso di istruzione anzitempo). 



Un’idea di scuola perfettamente in linea con il decreto legge n.104/2013 da poco varato dal governo, tra le cui norme è presente anche quella che autorizza l’assunzione a tempo indeterminato di oltre 26mila docenti di sostegno, per rispondere alle esigenze di più di 52mila alunni oggi assistiti in modo precario. Se questa è l’immagine prevalente, ve n’è un’altra che si sta diffondendo attraverso la formazione dei docenti, prevista regione per regione, sul testo delle “nuove” Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. Qui la scuola è vista come centro di una nuova acculturazione (“Cultura, scuola, persona” è il titolo del primo capitolo del testo) basata sull’apprendimento delle competenze-chiave definite dall’Europa in alcuni documenti ormai non più troppo recenti (2006), al cui vertice sta l’imparare ad imparare: espressione idiomatica della pedagogia curricolare che promuove la “verticalizzazione” dei saperi come strategia affidata alla scuola autonoma, più che al sapere stesso che pure, forse, una sua oggettività dovrebbe averla. 



Che cosa faranno, cosa si diranno i 2.500 docenti che il prossimo week-end confluiranno a Milano e a Bologna per l’evento in contemporanea denominato “Nuovi insegnanti e nuove scuole che crescono” stretti tra l’urgenza di tamponare le falle del passato e l’Europa che chiede di adeguarsi? C’è veramente qualcosa di nuovo che cresce in un ambito della nostra vita sociale dove le novità sembrano ben poche, fatte salve le ultime riforme degli ordinamenti scolastici, a volte digerite dai docenti obtorto collo, altre volte fatte digerire con il metodo spicciativo dell’alternativa tra il mangiare la minestra o il saltare dalla finestra? 



Durante il convegno di sabato 12 mattina (promosso da Diesse, CdO-Opere Educative, il Rischio Educativo), anzitutto i docenti cominceranno a guardarsi attorno, a comprendere il sistema scolastico nel quale sono inseriti, alla luce di una comparazione internazionale e di alcune testimonianze “forti” di costruzione di percorsi scolastici come risposta al bisogno educativo delle persone che si rivolgono alla scuola. 

La relazione fondamentale è affidata a Charles L.Glenn, della Boston University, che conosce la situazione italiana per averla studiata a fondo, quanto ovviamente quella statunitense, e che porrà a tutti la questione: cosa s’intende veramente per “libertà di educazione” sia in senso culturale che politico, cioè in termini di reale fattibilità dell’unica via d’uscita dalla crisi formativa in cui il nostro Paese sembra essere incappato da tempo, a voler dare retta alle valutazioni internazionali sempre piuttosto impietose? Dirà presumibilmente, il professore americano, che la libertà di educazione (una scuola che soddisfi le istanze delle famiglie) è un diritto dei genitori, un ambito di riferimento unico per il lavoro dei docenti e, da ultimo, un dovere per gli Stati nazionali che dovrebbero promuoverlo. La libertà di educazione fa crescere la scuola perché ne è l’origine, prima che lo Stato ne limitasse l’esercizio imponendo i suoi programmi (che oggi in Italia sono stati stemperati dalle “Indicazioni”). 

La libertà di educazione, testimonierà in seguito Rose Busingye, che a Kampala (Uganda) ha promosso una scuola di mattoni in mezzo alle baracche perché così chiedevano i genitori, attiva le migliori energie dell’uomo: da una parte mobilita la famiglia a trovare risorse e legami nel territorio; dall’altra qualifica gli insegnanti che si rendono disponibili per un progetto che va dalle materie insegnate alle persone che apprendono. Altri interventi seguiranno su questo stesso piano.

Come un seme sotto la neve, il piccolo esercito dei presenti (ma poi non tanto piccolo) si renderà ancora più consapevole che le parole lanciate dalle relazioni sono già in parte da loro realizzate nella esperienza quotidiana di scuole libere (paritarie) cresciute nel Paese e ancora vitali come “scuole del popolo”, cioè espressione di una tradizione che si rinnova attraverso l’educazione delle nuove generazioni, e di insegnanti che assumendosi la responsabilità del proprio lavoro uniscono la vocazione all’insegnamento alla professionalità dell’impegno, essendo l’insegnante uno che gioca in campo aperto. 

Sul versante della professionalità docente, poi, nella sola Bologna proseguirà la Convention Scuola di Diesse con le Botteghe dell’Insegnare (quest’anno una ventina) e vari eventi collaterali: assemblee, stand, libri e altro ancora.  Si renderà visibile e sperimentabile che la libertà di educazione è anche ricerca di percorsi all’interno del sapere, che partono sempre da una interpretazione, da un giudizio. È questa la sfida che le “botteghe” lanciano a tutti i partecipanti e al mondo della scuola in quanto tale. Non c’è cultura senza giudizio su ciò che accade in un ambito del sapere e non c’è scuola senza che il sapere si misuri con un contesto fatto di spazi, tempi, esigenze e strumenti di comunicazione. 

Insomma, nel suo genere, la due giorni de 12-13 ottobre è un evento che può segnare una tappa significativa della convivenza civile, sul versante della scuola e dell’educazione. Sicuramente lo sarà per quelli che vi parteciperanno.