È uno dei temi più controversi tra quelli che riguardano la scuola italiana in questo momento storico e non è un caso. Non per la tragedia – ennesima – del 3 ottobre scorso a Lampedusa. Già da tempo l’attenzione mediatica considera problemi che il lessico didattichese definisce di integrazione ed inclusione. L’Ufficio Statistica del Miur rileva che lo scorso settembre nelle scuole italiane hanno iniziato l’anno scolastico anche 736.654 studenti stranieri con cittadinanza non italiana: 114.319 nelle scuole dell’infanzia, 271.857 nella primaria, 169.963 nella secondaria di I grado e 180.515 in quella di II grado. 



Appena due anni fa, nell’anno scolastico 2011/2012, gli alunni con cittadinanza non italiana entrati per la prima volta nel nostro sistema scolastico erano 45.676. L’incremento esponenziale della presenza di alunni stranieri interessa soprattutto Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia. Su queste pagine si è posta la questione di “una classe di 3 italiani su 20“, di classi con “troppi stranieri, ecco perché ho ritirato mio figlio“, del cosa fare “se marocchini, albanesi e rumeni ‘sgombrano’ le nostre classi“. La lucida analisi offerta da Giuseppe Bertagna proprio su ilsussidiario.net parte dall’evidenza che “la demografia disegna il futuro della nostra società molto più della sociologia”. 



Come fare lezione? Il problema della lingua italiana è ormai un ostacolo enorme al lavoro didattico: quando in una classe vi sono turchi, rumeni, cinesi, albanesi, marocchini e, sempre più frequentemente, solo qualche italiano, come condurre il dialogo? Si comunica per immagini, si prende il dizionario, si semplifica al massimo la comunicazione verbale che diventa “antiquata” (Rosanna Frati, ndr) nel tentativo, in sostanza, di fare accoglienza per come si può. E l’istruzione? Il programma rallenta o addirittura “salta”. Il malessere si diffonde tra genitori e insegnanti al bivio tra equilibrismo titanico dei più volenterosi – quasi sempre frustrato – e rassegnazione passiva.



La cosiddetta “scuola dell’autonomia” risponde nella maggior parte dei casi con calma e gesso da prassi burocratiche. Anzi, chi tenta di trovare soluzioni adeguate viene messo alla gogna mediatica, preda di guerre ideologiche che restano miopi davanti all’esperienza. È quel che è successo all’inizio di novembre al dirigente scolastico della scuola media Besta di San Donato, quartiere alla periferia di Bologna, prof. Emilio Porcaro che, per non rifiutare la richiesta di inserimento di 15 ragazzini stranieri – poi divenuti 22 – arrivati a Bologna per ricongiungimento familiare, ha inventato un “ambiente di apprendimento e alfabetizzazione temporaneo” (Corriere della Sera, 6 novembre) da cui poi l’allievo viene trasferito alla classe di riferimento. 

La “classe ponte”, apprezzata da tutti i genitori e dagli alunni, oltre che dal vicedirettore dell’Ufficio scolastico regionale e dal sottosegretario all’Istruzione Gian Luca Galletti (Il Resto del Carlino, 6 novembre), ha dovuto attraversare l’accusa di classe-ghetto, incentivo al razzismo e chi più ne ha più ne metta. 

In un quadro che non può certo definirsi sereno, le affermazioni fatte dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza in visita al liceo scientifico Lussana di Bergamo non possono che destare profondo stupore: “Per l’integrazione la scuola ha una sua metodologia, in Italia siamo avanti e la scuola ogni giorno affronta questo tema. Sicuramente c’è bisogno di potenziare e sostenere il lavoro degli insegnanti, ma senza creare percorsi differenziati e punitivi”, con ciò bocciando le cosiddette “classi ponte” di alfabetizzazione iniziale per l’insegnamento dell’Italiano Lingua Seconda. E ancora: “in un momento come questo, dopo Lampedusa, non abbiamo bisogno di proposte polemiche, ma di fare integrazione in modi nuovi”. Infine, per dare credibilità inconfutabile a questa tesi che difende l’avanguardia serena della nostra scuola sul tema, chiama a testimone l’Invalsi le cui prove, secondo il ministro, dimostrano che “a lungo termine la percentuale di immigrati in classe non fa differenza sui risultati rispetto alle classi senza stranieri. Piuttosto c’è un arricchimento e un’apertura dal punto di vista culturale e della società” (L’Eco di Bergamo, 8 ottobre 2013). 

Analoghi toni ottimistici il ministro ha ribadito a SkyTg24. Consideriamo l’argomento più interessante a sostegno di tale ottimistica visione. Cosa dicono i dati Invalsi 2013? È vero che “la percentuale” − non meglio precisata dal ministro − “non fa differenza”? 

Gli apprendimenti degli studenti stranieri nei dati Invalsi 2013 − L’11 luglio scorso, come ogni anno dal 2007, l’Invalsi ha pubblicato il Rapporto nazionale relativo al Servizio nazionale di valutazione (Snv) degli apprendimenti e alla Prova nazionale, ossia quella sostenuta dagli allievi di terza media all’esame di Stato del I ciclo. Com’è noto l’Invalsi basa le proprie rilevazioni su prove di italiano e matematica standardizzate somministrate agli alunni alla fine dell’anno scolastico di riferimento. I risultati restituiscono un quadro relativo all’intero territorio Italia e disaggregato per Regioni/aree geografiche Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Sud e isole, e per livelli, ognuno corrispondente alla classe di riferimento. Le classi sono le II e V primaria, I e III secondaria di I grado e II secondaria di II grado per un totale, quest’anno, di 2.862.757 studenti.

Tra i criteri di elaborazione dei dati vi sono le differenze tra gli alunni e, fra queste, quelle fra alunni italiani e stranieri. Se è vero, come lucidamente notava Bertagna nell’articolo citato, che “alunno straniero” è una definizione astratta e pertanto equivoca, diremo qui che per Invalsi sono “stranieri” (vedi: Oecd, Pisa Technical Report 2006) gli alunni nati all’estero da genitori stranieri (prima generazione) e gli alunni nati in Italia da genitori entrambi stranieri (seconda generazione).

Già dalle rilevazioni nazionali dell’anno scolastico 2009-2010 i risultati degli allievi di origine immigrata sono stati analizzati distinguendo le prime generazioni dalle seconde. Tutti gli alunni d’origine immigrata partecipano alle prove Invalsi, anche se inseriti per la prima volta in una scuola con lingua d’insegnamento italiana nel corso dell’anno scolastico (Rapporto, p.100). Non è difficile comprendere che i dati sono tanti e fotografano un quadro complesso, tanto che lo stesso Rapporto avverte sulla necessaria prudenza nel considerare la contradditorietà/significatività di alcuni risultati. Vediamo alcuni dei fattori di complessità più rilevanti, ossia la disomogeneità demografica della percentuale di stranieri e il gap italiani-stranieri negli apprendimenti.

1. Disomogeneità demografica degli alunni stranieri − Intanto, dispiace dover smentire il ministro, ma non esiste alcuna ricostruzione dei dati avente come criterio le classi “con percentuale di stranieri” e classi “senza stranieri”. In questo è opportuno il richiamo a una regola di buon senso: i dati vanno interrogati secondo la logica – e in questo caso i parametri di differenza − con cui sono stati raccolti ed elaborati. Il ministro invoca una ricostruzione che può, in realtà, essere operata solo dal singolo dirigente scolastico − o, come vedremo, da enti di ricerca autorizzati − che, in qualità di gestore, è l’unico che può accedere ai dati della sua scuola e dunque delle singole classi. 

In altri termini la privacy esige che ogni ds abbia la “fotografia” del proprio istituto. Tuttavia uno studio pubblicato lo scorso settembre, The Tower of Babel in the Classroom? Immigrants and Natives in Italian Schools (R. Ballatore, M. Fort, A. Ichino), è partito dal fatto che l’entità demografica dell’unità-classe è in media stabile e omogenea in Italia, ma la composizione cambia per la percentuale autoctoni/stranieri. Questo studio ha evidenziato che se sostituiamo un ragazzino italiano con un immigrato, in una classe seconda elementare, le risposte corrette date dai nativi nei test Invalsi si riducono di una percentuale considerevole: del 12% in italiano, del 7% in matematica (Cfr. O. Sacchelli, 24 settembre, IlGiornale.it). Tale “danno” si attutisce solo dopo 3 anni. Ed eccoci al fattore più rilevante: tale percentuale di studenti stranieri per classe varia considerevolmente tra Nord e Sud Italia. Se, senza tener conto della differenza tra stranieri di prima e seconda generazione, la percentuale media di stranieri in Italia è tra l’11-12% nelle due classi della primaria, 10-11% nelle due classi del I grado e del 9% nella II di II grado, in realtà nel Settentrione e nel Centro raggiunge il 16-17%, mentre scende al 4-5% nelle aree meridionali ed insulari (Rapporto, pp.100-101).

2. Il gap italiani-stranieri negli apprendimenti − Torniamo alla differenza italiani-stranieri. Lo scarto negli apprendimenti, soprattutto per gli stranieri di prima generazione, è maggiore laddove la percentuale di stranieri è più alta, ossia il Settentrione (Rapporto, p.103). Il gap sembra attutirsi alla fine del I ciclo, ossia secondo i dati della Prova nazionale dell’esame di Stato. Tuttavia esso riappare, più sensibile, nella scuola secondaria di II grado. Da notare che il pattern evolutivo rileva sempre dei punti percentuale di scarto degli apprendimenti in italiano tra gli studenti italiani e gli stranieri. Solo nel Meridione, gli alunni stranieri di seconda generazione risultano talvolta lievemente migliori degli autoctoni sia in italiano sia in matematica. Basta questo a definire il gap? No. Infatti, va ricordato che i dati sono elaborati per area geografica e dunque il gap è, ad esempio, tra studente straniero del Sud e italiano del Sud. Questo dato deve dunque essere letto “incrociandolo” con la differenza dei livelli di apprendimento degli studenti del Settentrione e del Meridione, che vede i primi più bravi. In altri termini, se gli studenti di Milano e di Palermo fanno la stessa prova, è pur vero che la differenza negli apprendimenti tra italiano e straniero a Palermo sarà minore rispetto all’analoga coppia di Milano, laddove lo studente milanese risulta più preparato del compagno palermitano. Questo suggerirebbe l’opportuna cautela nel considerare la riduzione del gap italiani-stranieri al Meridione rispetto al Settentrione.

Infine, l’Invalsi non consente di esprimere una valutazione del “lungo termine”: il Rapporto 2013 illustra un’evoluzione dei dati nell’ultimo quadriennio, ma precisa che la rilevazione nella II secondaria di II grado è stata introdotta solo nel 2011 e che le prove non sono ancorate ad una metrica costante nel tempo necessaria per effettuare confronti assoluti nel tempo (Rapporto, pp.152-153). Non serve poi precisare che l’Invalsi non somministra prove costruite per misurare l’evoluzione dell'”arricchimento culturale” dovuta alla presenza di stranieri in classe sottolineata dal ministro.

Certo è che se, da un lato, come ha già detto Bertagna, la circolare Miur n. 2 dell’8 gennaio 2010 che fissa al 30% il limite di alunni stranieri per classe resta disattesa in alcune regioni, d’altro canto la normativa sui Bisogni educativi speciali (direttiva ministeriale 27 dicembre 2012 e crcolare ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013) riconosce anche la condizione di straniero quale causa di possibili disagi nell’apprendimento. 

Misconoscere la realtà delle cose equivale a fare falsa istruzione, finta accoglienza, a creare disagi e incomprensioni, in nome di che? Della calma e del gesso burocratico, della paura delle novità di esigenze che la realtà pone davanti. La burocrazia recalcitra. Ciò significa far perdere la reale sfida ad una scuola che “resiste” a percorrere strade e iniziative flessibili che l’autonomia rende percorribili, come mostra l’esperienza delle scuole Besta di Bologna. Quello dell’autonomia “mancata” in Italia, invece, prima o poi sarebbe un bilancio da farsi: quello sì, purtroppo, può essere ricostruito sul “lungo termine”!

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