Secondo articolo di Adolfo Scotto Di Luzio dedicato alla scuola media. Il primo articolo è uscito il 15 novembre.
 

(…) In un contesto economico molto diverso dal ciclo espansivo del secondo dopoguerra, alla fine di un processo di deindustrializzazione che ha profondamente mutato la composizione di classe della società italiana, i problemi della scuola non possono essere posti in termini così angusti. Non si tratta semplicemente dell’efficacia della scuola rispetto all’impiegabilità dei suoi studenti. Piuttosto bisognerebbe essere in grado di impostare il problema della scuola secondaria in rapporto al ruolo che questa è chiamata a svolgere nel dare forma alla nuova Italia uscita dallo smottamento delle sue strutture politiche culturali e industriali a partire dagli anni Ottanta in avanti. È rispetto al quadro generale del Paese che la nuova questione scolastica assume rilievo al passaggio tra XX e XXI secolo, ed è sullo sfondo di queste trasformazioni che il problema della scuola media, nel quadro del destino dell’istruzione secondaria italiana, deve essere affrontato.



In particolare a me pare cruciale oggi come cinquant’anni fa rispondere alla domanda circa il tipo di italiani che abbiamo in mente e come la scuola possa concorrere alla loro formazione. Questo ruolo, che è culturale e civile, prim’ancora che economico, assume un particolare rilievo in relazione a due dimensioni fondamentali della società italiana attuale: il nuovo ceto medio emerso negli ultimi trent’anni in rapporto alle profonde trasformazioni del tessuto produttivo del Paese, da un lato; e quegli italiani di nuovo tipo che sono i giovani immigrati e i figli nati in Italia di genitori stranieri. È qui, infatti, che si concentra con più intensità il fenomeno della sconfitta scolastica ed è questo il nuovo confine del sentimento dell’appartenenza nazionale e dell’integrazione politica nella sfera rinnovata della cittadinanza. In entrambi i casi il destino della scuola si gioca sulla sua capacità di fornire una rinnovata cornice intellettuale e morale alla nuova Italia nata dalla transizione novecentesca.



Da questo punto di vista una discussione sulla scuola media dovrebbe confrontarsi con quello che la scuola media oggi insegna ai suoi studenti a partire dalle condizioni fatte a questo insegnamento (per tacere della questione altrettanto cruciale della formazione e dei meccanismi di selezione degli insegnanti. Sullo sfondo di un deficit storico nella qualità del reclutamento dei professori della scuola media, si iscrivono le conseguenze dell’attuale crisi dell’università, in modo particolare del sistema dei crediti come base di accesso alle classi di concorso). Mi limito qui a suggerire una riflessione su due dimensioni particolarmente rilevanti per la forma culturale contemporanea, l’insegnamento della lingua nazionale e quello della matematica. 



Da questo punto di vista, se la scuola media è sfuggita al tentativo compiuto alla fine degli anni Novanta di assorbirla e annullarla nel ciclo dell’istruzione primaria, nondimeno ha subito in questo primo decennio del secolo un processo di dilatazione dell’enciclopedia del sapere che ha finito per indebolire il peso relativo delle discipline fondamentali. È il caso appunto dell’insegnamento dell’italiano. A partire dal 2004, tanto la lingua nazionale che la matematica sono state accorpate in campi disciplinari più vasti e così abbiamo l’insegnamento di italiano storia e geografia, comprensivo di cittadinanza e costituzione, e la cattedra di matematica e scienze. Così accorpate, nel quadro dell’ordinamento orario della norma Gelmini, le materie umanistiche valgono sulle tre classi il 31% del monte ore settimanale che in realtà assomma al 30 se calcolato sull’anno (297 ore su 990). È vero che questa quota sale al 37,5% nelle classi a tempo prolungato, tra le 34 e le 36 ore settimanali, ma queste nel 2006-07 valevano il 13% e la loro pre senza si è ulteriormente ridotta negli anni successivi (per non parlare del tetto massimo delle 40 ore). Nel 1963 e fino al 1977, le materie cosiddette umanistiche impegnavano il 42,6% dell’orario settimanale di prima, seconda e terza media. Un orario, fra l’altro, inferiore di almeno cinque ore rispetto al le versioni minime attuali. 

Che questo abbassamento sia imputabile ai tagli lineari che la scuola ha sofferto a partire dal 2008 come vuole una frettolosa vulgata non corrisponde alla verità. Il declino dell’insegnamento dell’italiano, della storia e della geografia data dalla fine degli anni Settanta e, come rilevavo all’inizio, è frutto di una dilatazione dell’enciclopedia del sapere scolastico. È l’esito del tributo pagato al mito sociale dell’innovazione curricolare. La scuola è stata di fatto considerata negli ultimi trent’anni come un magazzino dove stoccare di volta in volta la disciplina del momento, le applicazioni tecniche e il lavoro manuale negli anni Sessanta e Settanta, l’inglese e le lingue straniere negli anni a noi più vicini. Tutto questo inevitabilmente ha un prezzo. Nel nostro caso l’esito è un impoverimento delle basi della conoscenza e dell’uso della lingua nazionale.

L’erosione della presenza dell’italiano e delle materie ad essa collegate nella scuola media degli ultimi quarant’anni appare ancora più evidente di fronte alla sostanziale stabilità del quadro orario della matematica e delle scienze. Dal ’63 ad oggi le due discipline, a lungo separate ed infine accorpate dal decreto del 2004, hanno occupato senza significativi spostamenti un quinto del monte ore complessivo. 

Anzi a voler essere pignoli si è scesi dal 21,3 per cento nel primo anno di istituzione della nuova scuola al 20,7 dei nostri giorni, sulla base però di un orario settimanale che in compenso è cresciuto del 20 per cento rispetto a cinquant’anni fa.

Insomma, la scuola media si è dilatata in questi decenni riducendo il peso relativo di due campi del sapere fondamentali per la costruzione della moderna cittadinanza. Allora, se il problema della scuola è mettere in forma la nuova società italiana che come tutte le società occidentali è oggi sollecitata sui due fronti dell’identità collettiva e delle contraddizioni culturali connesse alla nuova composizione sociale postindustriale, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: può questa scuola assolvere alla sua funzione se gli strumenti fondamentali della costruzione della presenza individuale nel mondo appaiono così indeboliti?

(2 – fine) 

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