L’8 novembre è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge n. 128/2013, recante “Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca”, di conversione del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104 meglio noto come decreto Carozza o, come è stato twitteristicamente definito dallo stesso ministero, “L’Istruzione riparte”.
Nei giorni scorsi i media nazionali sono stati riempiti dai commenti. Nel complessivo, stante la particolare e spesso ideologica ferocia degli opinionisti e dei “tecnici” in materia di nuove leggi, i giudizi sono stati timidamente positivi. Non certo distruttivi.
Gradimento in buona parte meritato, poiché il decreto Carozza contiene effettivamente novità interessanti. In sintesi si potrebbe dire che è un buon articolato normativo, senza l’ambizione di essere l’ennesima riforma epocale, ma anche senza troppe pretese culturali. Anzi, in questo senso (nella visione) con qualche confusione che potrebbe determinare pericolose derive nei futuri provvedimenti legislativi.
Il Capo più importante è certamente il primo, contenente Disposizioni per gli studenti e per le famiglie. Come si è scritto, vi sono contenute tante piccole, ma opportune, concessioni economiche e normative: 15 milioni per il welfare dello studente (art. 1), 100 milioni annui per il diritto allo studio (art. 2), il potenziamento dell’offerta formativa per adeguarla anche “alle esigenze espresse (…) dal mondo del lavoro e delle professioni” (art. 5), implementazione del sistema di alternanza scuola-lavoro (art. 5), possibilità di redigere economici libri di testo in modalità open access (art. 6), iniziative straordinarie di contrasto alla dispersione scolastica (art. 7), 5,6 milioni per offrire migliore orientamento già dalle scuole medie (art. 8), impegno a “far conoscere il valore educativo e formativo del lavoro” anche attraverso giornate di formazione in azienda e contratti di apprendistato (art. 8-bis), costruzione di una anagrafe unica degli studenti (art. 13), più apprendistato nelle università (art. 14), maggiore formazione per i docenti (art. 16).
Contenuti essenzialmente positivi, non intaccati dai professionisti del “benaltrismo” all’italiana: “non va bene perché servono più fondi”; “si poteva fare anche questo”; “si sono dimenticati di quest’altro”. Un passo avanti, per quanto piccolo, è sempre un movimento di miglioramento, da apprezzare anche quando non ci si spellerebbe le mani per applaudirlo.
Preso atto dell’avanzamento, è corretto anche segnalare gli squilibri che denotano un pensiero debole di fondo (invero piuttosto diffuso negli atti di questo Governo in materia di formazione e lavoro) che potrebbe avere conseguenze nefaste nella produzione amministrativa connessa a questa legge.
L’uso anomalo, per quanto non legislativamente inedito, di espressioni come “esigenze del mondo del lavoro” e “valore educativo e formativo del lavoro” attutisce, ma non evita, lo sgradevole impatto culturale con il solito e superato (in Europa, quantomeno) pregiudizio che l’alternanza sia materia per gli studenti dell’ultimo biennio delle scuole secondarie superiori (artt. 5 e 8-bis). Un metodo pedagogico funziona o non funziona. L’esperienza quotidiana e la dottrina meno dogmatica concordano sulla validità educativa e formativa dell’incontro con il mondo reale e quindi anche con il mondo del lavoro, in ogni ordine e grado dell’istruzione e formazione. Non è un contentino per i maggiorenni della formazione tecnica e professionale, ma metodo che andrebbe vissuto dall’asilo all’università.
Nell’alveo di questo metodo apprendistato, tirocini e didattica laboratoriale sono strumenti. Il primo non può che essere relegato agli ultimi anni della scuola secondaria a causa dell’imprecisa scrittura dell’articolo 5 del Testo Unico, ma i tirocini, in particolare quelli “veri” (almeno oltre il mese di esperienza) sono da incoraggiare almeno dai 15 anni. Perché non prima? A causa di un’altra norma, questa volta regolante l’alternanza (la legge 53 del 2003).
Si tratta di due spunti di assoluto interesse per chiunque voglia davvero affermare la valenza educativa e formativa del lavoro: è forse venuta l’ora di intervenire sia sul Testo Unico dell’apprendistato permettendo l’uso di questo contratto a 14 anni e non solo per la formazione professionale regionale, ma per tutta la secondaria superiore; sia sulla legge Moratti e i decreti connessi per permettere l’alternanza scuola-lavoro lungo tutto l’arco della stessa formazione secondaria superiore.
Purtroppo, però, i dati normativi sembrano presagire un futuro nebbioso. Non una stagione all’attacco, sfruttando le aperture terminologiche della legge Carozza per provare ad approvare queste ed altre proposte normative, ma un lungo turno di veglia per presidiare la scrittura del temutissimo “regolamento, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, concernente la definizione dei diritti e dei doveri degli studenti dell’ultimo biennio della scuola secondaria di secondo grado impegnati nei percorsi di formazione di cui all’articolo 4 della legge 28 marzo 2003, n. 53, come definiti dal decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77” da approvarsi “entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, su proposta del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali” (art. 5).
Sessanta giorni che saranno la “quaresima lunga” dei tanti che non solo se ne riempiono la bocca, ma vivono l’alternanza scuola-lavoro. L’obiettivo del ministro pare proprio quello di scrivere un regolamento dello studente “alternato” (ovvero che vive l’esperienza di alternanza ex legge Moratti; alternanza però ora intesa come strumento, più che come metodo!) che avrà, per il ministero, il merito di circoscrivere una zona attualmente di difficile definizione; per tutti gli altri il demerito di limitare la libertà e fantasia didattica che i docenti più moderni stanno sfruttando per costruire veri e propri percorsi misti “alla tedesca”.
Ancor più grave, poi, l’ingiustificata limitazione al solo “ultimo biennio”, che pure mai è citato nella legge 53 che ispira questo intervento.
La pubblicazione di un regolamento così concepito sortirebbe due effetti: l’irrigidimento burocratico in materia di alternanza, che è la prima cura contro ogni sperimentazione virtuosa; la delusione doppia di chi sta vedendo nella legge in commento un passo avanti, il primo sole di una prossima estate legislativa.
Spetta al ministro essere coerente con ciò che ha voluto scrivere e che spesso dichiara anche ai media; agli operatori della scuola e della formazione professionale il compito di non abbassare la guardia e pretendere la realizzazione delle tante promesse scritte tra le righe delle nuova legge 128.
@EMassagli