Che la questione “insegnanti” sia, tra i tanti guai della scuola italiana, “la” questione cruciale, quasi “vitale”, è sotto gli occhi di ogni buon senso quotidiano. I versanti della questione sono numerosi, molto radicati, strettamente collegati tra loro. 

1. Innazitutto la dimensione: un vero mistero, visto che non sono reperibili da nessuna parte dati aggiornati sul numero di docenti in servizio, per territorio, per cicli scolastici e ordini di scuola, per aree disciplinari, per tipo di contratto, per sesso, per età. Cioè il minimo di dati che qualsiasi azienda deve avere per ragionare sul proprio sviluppo. Persino la Fondazione Agnelli nel 2009 allargava rassegnata le braccia, sostenendo che “il numero degli insegnanti in Italia non lo conosce nessuno”. Là si parlava di 240mila contratti a tempo determinato. Gradioso!



2. Poi l’età media, oltre ogni media internazionale, con la conseguente, da tutti ribadita, esclusione dei giovani da anni. Tranne, occorre ricordarlo, le scuole non statali, uniche oggi a reclutare i giovani. I vani tentativi, dal ministero Moratti in poi, di far ripartire la formazione universitaria degli insegnenti ed il loro relcutamento, hanno mostrato il fallimento delle istituzioni, politiche, ministeriali ed universitarie. Proprio su queste pagine due articoli ben descrivevano la confusione di questo settore. 



3. Quindi le soluzioni normative. Il sindacato ed il ministero, con la connivenza della politica, continuano ad assumere misure relative all’insegnamento che nulla hanno a che fare coi reali bisogni della scuola, ma con tutt’altre altre eisgenze (posti di lavoro, interessi delle corporazioni universitarie e disciplinari). L’ultima recentissima conferma viene dal modo con cui viene fatto l’inserimento della geografia nei tecnici e professionali.

4. La cultura universitaria contribuisce poi ad aggravare la “questione docente”: con la sua arretratezza organizzativa e didattica che non sa guardare ai migliori modelli internazionali; con le forti disparità dei laureati in uscita rispetto al fabbisogno reale; ma soprattutto con la sua prevalente astrattezza e lontananza dalla vita reale. Come si fa a sostenere che basta “sapere” per “insegnare”? 



Insomma: nonostante i tanti dibattiti (forse favoriti dal fatto che facciamo solo quelli?) l’assenza di una vera e avanzata visione del rinnovamento della scuola italiana, fa sì che le varie misure assunte nella scuola italiana dagli anni 90 in poi (il riordino Gelmini del secondo ciclo ne è un esempio dalle vaste conseguenze) non aiutano certo il mondo dell’insegnamento a rinnovarsi.

5. Ma l’elemento centrale resta il radicato ed inamovibile permanere del centralismo statalista, con tutte le sue forme e meccanismi di reclutamento, sia dei docenti che dei dirigenti scolastici.

Non si può affrontare seriamente la questione del precariato senza tener conto di questi fattori. Tanto meno si metterebbe mano seriamente al precariato nella scuola facendone solo un problema di assunzioni generalizzate. 

Certo che esiste un problema sindacale: la mortificazione di chi aspira a un lavoro. Certo che esiste anche un problema finanziario: troppo semplice esigere di assumere tutti senza compartecipare al problema del reperimento e dell’uso delle risorse.

Ma la vera natura del problema è che la vastità del precariato rende difficile (quando non impossibile in certe situazioni come negli istituti professionali che detengono il maggior primato) una valido lavoro culturale, formativo ed educativo con gli allievi, perché in questo lavoro sono decisive la stabilità, la continuità, la preparazione e la dedizione e passione che così verrebbero favorite.

Le risposte al monito comunitario indirizzato al Miur, apparse sui giornali, hanno l’aria del solito diversivo: sostenere che la trasformazione delle graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento sia una soluzione del precariato è una battuta che non va detta ad alta voce nè ai precari, nè ai giovani insegnanti, né alle famiglie, poiché si calcola che per esaurirle occorreranno circa 12 anni. Sostenere che l’assunzione, quest’anno, di 11mila docenti (ammesso e non concesso che tanti saranno) sia una soluzione, è un’altra battuta che può prendere sul serio solo un burocrate che passa le carte ad altri.

Le battute sindacali, poi, mostrano ancor di più la vacuità culturale di fronte al problema, visto che l’unico interesse che viene difeso è solo l’assunzione generalizzata degli attuali precari. Al sindacato pare non interessare né il problema del reperimento delle risorse finanziarie per realizzare questo obiettivo, né tantomeno il problema del rapporto tra discipline insegnate dagli attuali precari, necessità della scuole e verifica della preparazione (i pochi giovani assunti con concorso debbono superare una selezione almeno quantitativamente notevole).

Credere di uscire dal gravissimo problema modificando qualche pezzetto degli attuali meccanismi (fare un test preselettivo prima delle prove o altro) o modificando le sedi (dal concorso nazionale al regionale o dal regionale al nazionale come avverrà per i dirigenti scolastici) è solo fare esercizio di piccola “tecnologia” burocratica.

Chi ha sollecitato l’intervento della Ue (sindacati e associazioni) non l’ha fatto certo per interesse alla qualità formativa della scuola. Lo stesso monito soffre di un’origine prettamente amministrativa. Ma se questo, con tanto di minaccia della multa, solo ottenesse l’effetto di costringere a rompere gli attuali schemi di reclutamento, allora non si tratterebbe della solito diverbio tra istituzioni.

Purtroppo questo monito cade in un momento in cui gli interessi della politica e del sindacato sono altrove, non certo diretti al livello culturale, professionale ed educativo dei nostri giovani.

Due sono le possibilità. O esistono un governo e un sindacato che hanno nelle mani una bacchetta magica per rendere improvvisamente, o comunque in brevissimo tempo, più efficiente la burocrazia italiana, così da far funzionare efficacemente qualità e tempi di una selezione concorsuale annuale.

Oppure, si riprenda in modo deciso la strada del totale decentramento e quella dell’autonomia scolastica, trasferendo alle Regioni tutta la gestione delle scuole; si favorisce una regolata e controllata “competizione” nel sistema pubblico delle scuole; si affida alle istituzioni scolastiche autonome la potestà di reclutamento (quindi di selezione) dei dirigenti scolastici e degli insegnanti necessari. Naturalmente con chiari controlli esterni e relative penalizzazioni sull’utilizzo e lo spreco delle risorse assegnate dallo Stato.  

Al di fuori di questa via ci sono solo pannicelli caldi per lenire sofferenze e rinviare problemi.

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