Le analisi secondarie che Ocse ha condotto sui dati di Pisa 2006 e 2009 hanno preso in considerazione in modo significativo le performance degli studenti immigrati. Questo sia per la rilevanza quantitativa del fenomeno, sia perché non è detto che nei vari sistemi gli immigrati presentino e soprattutto presenteranno solo problemi di integrazione in basso. Non è solo nel nostro paese che si comincia a pensare che fra poco contribuiranno a rimpolpare le sparute fila delle eccellenze disertate dagli autoctoni.
Alcuni risultati sono ovvi: là dove la lingua è la stessa (Canada, Australia), problemi non ce ne sono. Ma altri lo sono meno, soprattutto in un paese come il nostro in cui ci si continua a gingillare con pseudocertezze politically correct: uno di questi è che il problema fondamentale da risolvere è quello del vero possesso della lingua, intesa non solo come “lingua basic” che si apprende nell’interscambio con i compagni; e l’altro, che le comunità etnicamente compatte danno i migliori risultati.
Nel nostro paese si grida per l’ennesima volta allo scandalo se qualcuno, questa volta non un legislatore centrale o locale ma una scuola, dal basso, e sulla base dei suoi legittimi poteri, decide che per un certo periodo-ponte chi non possiede la lingua seguirà un periodo di insegnamento intensivo di quella lingua in classi che ovviamente non vedranno la presenza di bambini o ragazzi italiani. Nel Focus Pisa n. 29 dell’agosto 2013 si analizza la differenza in punteggio di Lettura fra gli arrivi anticipati (prima dei 5 anni) e gli arrivi tardivi (dopo gli 11 anni), giungendo alla conclusione che in generale gli allievi appartenenti a questa seconda categoria subiscono una rilevante penalizzazione rispetto ai primi. Ma non in Italia, nonostante che qualcuno pensi che, dopo 20 anni di esperienze, noi, come al solito, sappiamo già tutto: la nostra penalità per gli arrivi tardivi è infatti bassa poiché l’arrivo in età precoce non premia.
Cosa significa questo? Forse che la scuola dalla quale provengono gli arrivi precoci non ha dato loro significativi strumenti di miglioramento. Ovviamente non nella lingua di tutti i giorni, quella della mitica socializzazione fra compagni, ma nella lingua di studio che è cosa diversa e che richiede conoscenze e sensibilità linguistiche più esercitate. Per forza: se si vede da vicino cosa succede in proposito, si nota prima di tutto che non esiste un piano a livello nazionale con tempi ed obiettivi precisi e finanziamenti certi, anno per anno, oltre che con un certo livello di cogenza per le scuole.
Si violerebbe l’autonomia? Ma il potere centrale ha il dovere di presidiare gli snodi critici del sistema, come è questo, in luogo di cavillare e delirantemente normare su tutte le possibili e variegate disfunzioni dell’apparato di apprendimento degli infelici allievi autoctoni. Ed allora le scuole – quelle di buona volontà ed assediate dal problema − si arrangiano come possono, senza soldi, appoggiandosi ora alle elargizioni o ai servizi degli enti locali, anch’essi in via di estinzione finanziaria, ora alle disponibilità residue di orario degli insegnanti willing, ora ai lacerti del Fondo di istituto. Lezioni al pomeriggio? Per allievi che a volte faticano a frequentare al mattino anche perché non ci capiscono molto? E con che soldi?
Ma gli orientamenti del milieu pedagogico italiano e dei politici tutti demagogia-e-paternalismo mettono l’integrazione socializzante, quasi affettiva, al primo posto, attenzione spesso eccessiva verso gli aspetti “culturali” dell’inserimento, per lo più di scarsa rilevanza oggettiva; l’apprendimento, come l’intendenza, seguirà – se va bene. Una integrazione necessariamente al ribasso per tutti, autoctoni e immigrati, che penalizza soprattutto questi ultimi.
Forse ci si dovrebbe preoccupare di più del fatto che i risultati del Servizio nazionale di valutazione ci dicono che al Sud le scuole nella fascia dell’obbligo presentano una forte differenziazione dei risultati fra le classi, probabile conseguenza di una formazione delle classi discriminatoria fra classi sociali. In questo caso però non si vedono battaglie di stampa e di opinione, anche se mancano davvero ragioni presentabili per questa pratica.