Il riconoscimento del merito? Una pacca sulle spalle. I 41 milioni che sarebbero dovuti andare alle università più virtuose non ci sono, o meglio ci sono ma non possono venire destinati agli atenei e restano pertanto nella disponibilità del Mef. Il decreto scuola, di cui si attende entrol’11 novembre l’approvazione definitiva alla Camera, riesce a finanziare per 100 milioni le borse di studio ma non le università che rappresentano un’eccellenza nel Paese. Il commento di Carla Barbati, docente di diritto amministrativo e vicepresidente del Cun (Consiglio universitario nazionale).



La notizia è che gli atenei migliori sono rimasti a secco per un cavillo. Com’è possibile?
Non ho visto le carte, ma per quanto è stato dichiarato  si è trattato di un ostacolo di natura tecnica ed è alquanto verosimile, perché lo storno di fondi da un capitolo all’altro richiede procedure ben definite che assegnano un ruolo centrale alla Ragioneria Generale dello Stato. Se queste procedure non sono state poste in essere, è impossibile ottenere il risultato.



Forse sarà possibile recuperarli in sede di legge di stabilità.
Forse. Ma rimane un segnale importante, l’ennesimo, delle difficoltà interne di funzionamento con le quali si sta confrontando tutta la pubblica amministrazione e segnatamente l’amministrazione del settore universitario, che accusa una grave sofferenza in termini di risorse, di competenze organizzative e funzionali.

La graduatoria degli atenei virtuosi, e dunque penalizzati, è quella stabilita dall’Anvur lo scorso luglio. Se non ci sono i soldi per premiare il merito, il lavoro dell’Anvur è stato inutile?
Agli effetti della destinazione di incentivi finanziari, se non si recuperano quei denari il lavoro dell’Agenzia non può essere utilizzato. Può fornire se mai indicazioni per altri tipi di politiche e per altri interventi, posto che la promozione e l’incentivazione non si perseguono solo tramite strumenti di natura finanziaria. Resta l’esercizio di valutazione, il primo di questa ampiezza. Spetterà a quel punto alla sede politica, di governo, definirne il miglior utilizzo, anche sotto il profilo degli elementi conoscitivi che può trarne per la propria azione.



Mettiamola da un altro punto di vista. Se quei soldi fossero effettivamente arrivati alle università, il contribuente avrebbe la certezza che sarebbero stati ben spesi?
Occorre sempre verificare ex post come le risorse anche aggiuntive, di natura premiale, vengono utilizzate. Certamente sarebbero stati ben spesi in quanto l’investimento in università e dunque ricerca e cultura beneficia lo sviluppo intero di un paese. Questo è il presupposto che terrei sempre presente. Poi, su come effettivamente i singoli atenei premiati sarebbero andati a utilizzare le risorse, non si può che rinviare a un giudizio successivo, dopo che i soldi sono stati impiegati.

Ma il singolo ateneo sarebbe stato sovrano nell’utilizzo dei fondi?

Presumibilmente sì. Lo dico sotto questa luce dubitativa perché in realtà i criteri attraverso i quali sarebbero stati poi distribuiti i fondi, e quindi gli eventuali vincoli, non si conoscono allo stato. Poiché si succedono sempre provvedimenti amministrativi che rettificano, cambiano e ridefiniscono i termini, è difficile dirlo in via astratta.

Torniamo al merito. Per quanto riguarda la valutazione dela didattica, a che punto siamo?
Siamo fermi, perché all’Anvur si devono ancora mettere a punto le tecniche e i meccanismi. Al momento quindi ci si affida ancora al sistema basato sulla rilevazione dell’opinione degli studenti.

Cosa dice dei 100 milioni, a regime dal 2014, destinati alle borse di studio?
Essendo noi in una situazione di debolezza rispetto ad altre esperienze europee dove ci sono molti più finanziamenti, è evidente che essere riusciti ad attivare comunque, e in una situazione di così limitate risorse destinate al sistema universitario, forme di supporto è positivo. Tuttavia, da parte di chi sta monitorando il processo, quindi gli stessi studenti, vi sono ancora molti aspetti critici, in ragione soprattutto della insufficienza di questi interventi. Quindi direi: teniamo buono il primo passo che comunque si è compiuto, ma altri ve ne sono da compiere, anche nel senso di un deciso incremento di questi fondi, da attuare nonostante le esigenze generali di contenimento della spesa pubblica.

Fa polemiche il decreto sul turn-over dei docenti (n. 713/2013, ndr): disparità tra nord e sud nell’assegnazione degli organici, percentuali folli riservate ad alcuni atenei − tra i quali la Scuola S. Anna di Pisa, che si è assicurata un turn-over del 200% − rispetto ad altri, eccetera. Che ne pensa?
Guardi, innanzitutto rilevo che c’è un dibattito aperto sull’interpretazione delle disposizioni alle quali si è data attuazione per arrivare al decreto. È vero però che il legislatore, quello governativo o quello parlamentare, può cambiare le regole se producono effetti tecnicamente perversi: questo è il suo compito. Ciò detto penso vi siano, comunque, forti limiti nel tipo di soluzione adottata. Non dimentichiamoci che, anche in base ai nostri principi costituzionali, l’intervento pubblico deve sempre perseguire finalità di riequilibrio, mai creare disparità così forti all’interno dei sistemi.

In altri termini?
Occorre sempre promuovere e supportare le realtà deboli, siano esse al sud o in alcune zone del nord. Diversamente, le stesse realtà più forti ne subirebbero le conseguenze perché si troverebbero ad operare in un contesto globalmente danneggiato. I principi che guidano l’intervento pubblico devono sempre essere nel senso di correggere le cosiddette “debolezze” del mercato, per assicurare l’erogazione di quei beni e di quei servizi che devono comunque essere offerti indipendentemente dalla richiesta e dalle condizioni strutturali.

Quindi?

Poiché non è stata assicurata questa attenzione all’equilibrio del sistema, penso che quelle scelte necessitino di una correzione.

Però non possiamo più farci carico delle sacche di inefficienza: era questo il senso della riforma Gelmini, no?
Sì, anche se alcune delle politiche di cui stiamo parlando non trovano la loro origine nel disegno della legge 240, ma nei provvedimenti successivi adottati per la sua attuazione. È vero che l’idea di fondo è quella di una razionalizzazione del sistema universitario tale da restituirlo a una sua efficienza, e questo può significare anche il contenimento o la soppressione di alcune realtà. Però le razionalizzazioni devono essere operate in periodi lunghi, e devono comunque essere effettuate in modo tale da garantire un’omogeneità di intervento su tutto il territorio nazionale. Soprattutto, non secondo logiche di imprendorialità o di mercato, in quanto stiamo parlando di un settore, come quello della cultura e della ricerca, che non può obbedire solo a quei principi. 

Ma la competitività serve a premiare il merito.
Non si tratta qui di essere pro o contro il merito, ma di riconoscere che ricerca e formazione richiedono un altro tipo di attenzione. Sono fattori di sviluppo dei territori, ma di uno sviluppo “altro”, non immediatamente riconducibile a logiche di mercato.

Il suo auspicio?
Si attragga il settore universitario nell’ambito delle politiche pubbliche generali del paese; non venga considerato semplicemente come un ambito che assorbe risorse economiche, quelle che non ci sono e che dunque bisogna contenere, ma come un volano che genera sviluppo di lunga durata. Questo è quanto manca: la consapevolezza politica che la cultura e, pertanto, la ricerca sono risorse capaci di generare risorse. D’altra parte è questa l’indicazione che ci viene da tutti i paesi del mondo.