Il riconoscimento dato dal ministro Carrozza alla sperimentazione del liceo quadriennale, progetto quasi sconosciuto presente solo in pochissime scuole paritarie, ha scatenato una violenta polemica.
L’affermazione “Se ci fosse stato quando ero ragazza l’avrei frequentato anch’io”, poi, ha dato la stura a una generale indignazione. Del liceo in quattro anni si sa poco, anche se da sempre i licei italiani all’estero hanno questa durata, ma quasi tutti sono contrari: i sindacati preoccupati per la potenziale perdita di posti di lavoro per i docenti, alcuni politici che vedono questa ipotesi come un ennesimo taglio indiscriminato alla scuola con il pericolo per i ragazzi ancora in età di obbligo scolastico di cadere nelle mani della criminalità organizzata e i “tradizionalisti” che sgomenti si chiedono: “Ma come, abbiamo sempre avuto una scuola secondaria di cinque anni e adesso?”
Che ci siano difficoltà oggettive a garantire a tutti i giovani un’adeguata formazione di base è un dato di fatto, ma le cause di questo problema vanno forse più ricercate nella decisione di eliminare tutti i corsi triennali statali, nella scarsa disponibilità di corsi di formazione professionale, nelle oggettive difficoltà a gestire i pluribocciati che nessuno vuole iscrivere in prima per la terza volta e che non trovano alternative, nella rigidità dei percorsi che non sono in grado di riconoscere le competenze certificate dalle stesse scuole rendendo del tutto teorici i passaggi tra il sistema di istruzione e la formazione professionale.
In altri tempi, soprattutto in alcune zone del Paese, molte famiglie mandavano i figli a scuola un anno prima e, nel caso di ragazzini particolarmente studiosi, facevano loro “saltare” anche un anno alle medie con il risultato di farli approdare all’università a 16/17 anni permettendo loro di terminare in tempi ragionevoli anche le facoltà più lunghe. Attualmente i nostri studenti stanno a scuola più a lungo dei loro coetanei americani ed europei e, dopo essere stati ammessi all’università, vi rimangono anche un paio di lustri sostenuti da genitori che, dopo aver finanziato lauree che si possono definire eufemisticamente “deboli”, pagano anche master dello stesso tipo. Dopo tutto questo studiare, però, i risultati sono deludenti: le matricole non sanno scrivere in italiano, in matematica andiamo maluccio e nel complesso non riusciamo a formare giovani con una preparazione adeguata né per lo studio né per il lavoro, per non parlare, poi, dell’avanzata degli analfabeti di ritorno.
Se questi sono i risultati che si ottengono dopo un percorso lungo, qualcuno potrebbe osservare, sarebbero peggiori togliendo tempo scuola ai ragazzi; forse, però, si potrebbe anche cominciare a verificare se non sia il caso di sperimentare, anche nella scuola statale, qualche modalità nuova cercando di superare il prevedibile veto che viene posto su ogni proposta di cambiamento o richiesta di rendere conto dell’efficienza e dell’efficacia dei metodi adottati. La scuola italiana è sempre stata caratterizzata da un solido impianto culturale e ha docenti che fanno molto ma, nei fatti, i risultati non sono sempre all’altezza dell’impegno profuso e questo non solo perché non riusciamo a dare un tablet a testa.
Le eccellenze sono pochissime mentre sono sempre più numerosi insuccessi e abbandoni, gli spazi di confronto e discussione sono pochi e la chiusura in difesa finora ha scongiurato alcune riforme, senza però aiutare veramente a capire come ci si debba muovere per ottenere i risultati migliori. Cosa vogliamo fare per gli studenti? Dare loro gli strumenti per affrontare al meglio una vita di studio e lavoro utilizzando tutti i possibili strumenti di flessibilità e permettendo di adattare alle diverse esigenze i curricoli, oppure vogliamo solo tenerli il più a lungo possibile sui banchi?
Pensare che in quattro anni si possano affrontare tutti i contenuti che si affrontano in cinque sarebbe fuorviante, ma se si cominciasse veramente a ragionare in termini di competenze si potrebbero favorire, naturalmente con tutte le garanzie di trasparenza e oggettività necessarie, percorsi che prevedano la possibilità di ridurre di un anno gli istituti tecnologici o i licei.
Perché non pensare ad una annualità che consenta ai ragazzi più motivati di arrivare in terza un anno prima e seguire poi regolarmente il triennio fino all’esame di Stato? Nelle classi prime moltissimo tempo viene utilizzato per “allineare” gli studenti, alcuni dei quali hanno competenze inadeguate per affrontare il corso prescelto.
Lavorando per gruppi di livello, invece, si potrebbe tentare di sfruttare l’energia e l’entusiasmo che alcuni allievi perdono nei lunghi periodi di “ripasso” lasciando agli altri il tempo di cui hanno bisogno.
Potrebbe essere una sperimentazione per gruppi limitati, da monitorare e validare in quattro anni verificando i risultati ottenuti dai ragazzi agli esami di Stato e nei test di ammissione all’università.
Proprio in questi mesi, con le solite perplessità da parte dei docenti, sta partendo, in alcune Regioni, la sperimentazione dei Cpia.
I costituendi Centri per l’istruzione degli adulti giocheranno un ruolo importantissimo nel recuperare i giovani che vogliono riprendere gli studi, i lavoratori in riqualificazione, gli stranieri, e lo faranno grazie alla lunga esperienza che caratterizza i docenti dei corsi serali. Perché allora non trasferire parte di questa preziosa professionalità per elaborare modelli adatti a valorizzare le eccellenze? Perché non giocare d’anticipo invece di asserragliarsi in difesa ricordando che tutte le grandi sperimentazioni sono nate dentro le scuole?
Qualcuno, in ogni collegio docenti, proporrà di aspettare contando sul fatto che i tempi delle riforme sono lunghissimi e incerti, ma non si può rischiare di perdere potenziali studenti cercando di convincere loro e le loro famiglie che solo un corso di cinque anni costituisca una garanzia di successo senza portare, a sostegno della nostra teoria, i risultati della nostra attività.