Martedì Avvenire ha dedicato due intere pagine a quanto sta accadendo in questi mesi in Italia relativamente al tema dell’educazione sessuale e al suo rapporto con la teoria del gender che, come è noto, sostiene che l’esercizio della sessualità debba essere svincolato dalle caratteristiche fisiche di ogni individuo. Questi comportamenti debbono perciò avere una legittimazione nell’ordinamento attraverso l’equiparazione formale dei loro effetti giuridici.



Su questo punto è in atto una fortissima pressione da parte delle lobby LGBT (lebians, gay, bietero, trans) che godono di un appoggio diffuso all’interno del mondo della comunicazione e che si muove a diversi livelli.

Nel caso Barilla, l’industriale che a seguito di alcune, per altro molto educate, affermazioni è stato “processato” e condannato mediaticamente, l’esito è stato il cambiamento dell’immagine pubblicitaria della ditta che pure aveva fino ad oggi garantito ottimi risultati economici; nel caso dell’Istituto scolastico paritario Faà di Bruno di Torino la scuola per genitori avente come oggetto l’educazione sessuale ha dovuto essere sospesa; nel caso di Casale Monferrato un dibattito pubblico sul tema ha richiesto l’intervento della forza pubblica per contenere le “squadre d’assalto” dei sostenitori della teoria del gender.



Altri casi potrebbero essere ricordati ma, al di là della quantità che pure in questi casi è un indicatore significativo, impressiona l’articolazione dell’intervento e la sua concertazione. Ci si muove a livelli diversi e con strumenti diversi: dalla ragazzaglia che urla fino al boicottaggio televisivo, come è accaduto con l’esclusione da una trasmissione Rai su questo tema del vicepresidente dell’Unione Giuristi Cattolici prima invitato e poi pregato di restarsene a casa.

Accanto a quello che potremmo chiamare “fuoco di sbarramento” è anche in atto un’azione sistematica con l’obiettivo di introdurre nella scuola una precocissima educazione sessuale fondata sulla teoria del gender.



Queste situazioni devono destare grande preoccupazione: il tema della sessualità e del suo rapporto con l’istituzione familiare ha una enorme rilevanza antropologica ed educativa e, di conseguenza, anche sociale e politica oltre che, ovviamente, morale. E su questi aspetti infatti molto si scrive e si discute, anche se troppo spesso senza la necessaria lucidità.

Meno attenzione viene invece portata ad un altro aspetto di questa vicenda che appare volta a rovesciare alcuni dei paradigmi fondamentali su cui si è costituita la nostra civiltà: il progressivo formarsi di una normativa, che sta diventando cogente per ciascuno di noi, ma che passa attraverso percorsi che raramente vengono riconosciuti o almeno di cui non si parla.

Un caso (?) vuole che proprio in questi ultimi due anni siano stati compiuti alcuni atti, apparentemente tra loro sconnessi, ma tutti rilevanti per il tema sessualità e famiglia ed educazione. 

1. Il primo è la Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulle misure dirette a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere, deliberata nel 2010 e subito accolta (mi risulta solo dall’Italia) dall’allora ministro Fornero che, oltre che di pensioni e lavoro si occupava anche di pari opportunità (cfr. la Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, 2013-2015). Non risulta che tale atto abbia avuto l’assenso del Governo: certamente non ha avuto quello del nostro Parlamento. 

2. Il secondo è il recentissimo Standard per l’educazione sessuale in Europa redatto dall’Ufficio regionale europeo della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che intende dettare le linee guida per i programmi scolastici di tutti i Paesi europei.

3. Il terzo, e qui l’anello si chiude, è un comma, inserito nel decreto 104/2013 “Misure urgenti in materia di istruzione università e ricerca” nella stesura approvata dalla Camera dei deputati, che (art.16.1.d) stanzia 10 milioni di euro per la formazione degli insegnanti proprio sui temi di cui stiamo parlando. Caso unico, per questa formazione è previso il concorso di un non meglio precisato “associazionismo” (forse LGBT?).

In questi documenti, che riguardano tutti noi e di cui perciò sarebbe bene avere conoscenza diretta, le modalità argomentative sono molto differenti, ma sempre, quando dalle affermazioni generali si passa ad esemplificazioni l’educazione sessuale è sempre proposta solo secondo le categorie del “gender”. Anche quando vengono ricordati i “superiori interessi del fanciullo” o che “le misure dovrebbero tener conto del diritto dei genitori di curare l’educazione dei propri figli”, tali affermazioni appaiono irrilevanti rispetto alle modalità di azione proposte, anche per la collocazione marginale che ad esse viene data nel testo.

Per concludere. Il quadro che i fatti ricordati definiscono appare preoccupante, anzi, gravemente preoccupante, proprio perché legato a parole e motivazioni sempre gratificanti per la coscienza democratica di un normale cittadino. Si sta nuovamente affacciando nella vita del nostro Paese una modalità di affrontare il confronto culturale e politico che pensavamo appartenesse ad un passato ormai lontano.

Non siamo di fronte solo ad indizi maliziosamente interpretati per alimentare polemiche, ma a fatti platealmente e sistematicamente presenti nel nostro contesto pubblico. E questi fatti dicono che in nome dell’uguaglianza, si vuole arrivare all’indifferenza morale, che il fondamento della coscienza va riposto nella legge, che l’ordine e la giustizia sociale sono non solo garantiti ma generati dal potere. 

Ciò che sta scritto nella Carta costituzionale e in tutti i trattati e le Carte dei diritti su cui si fonda la comunità internazionale − che sempre fanno riferimento alla tutela della famiglia e all’originale diritto all’esercizio diretto della propria responsabilità genitoriale, all’obbligo di non ingerenza dell’organizzazione superiore quanto ci si trova di fronte a temi rilevanti per l’identità personale e nazionale − viene sostanzialmente ignorato. L’educazione, quella vera, diventa un compito dello Stato che viene esplicitamente investito anche della responsabilità di decidere che cosa sia giusto pensare.

Nell’incertezza e nella confusione che caratterizzano questi anni, segnati dal timore di dover affrontare appuntamenti ben più impegnativi di quelli cui le generazioni immediatamente precedenti hanno dovuto far fronte, si attribuisce all’istituzione pubblica il compito, meglio il potere, di decidere su aspetti che riguardano non le azioni ma le convinzioni dell’uomo.

Proseguendo su questa strada il reato di opinione rischia di non essere più solo un’ipotesi di scuola. Appoggiandosi a ragioni apparentemente condivisibili, ma troppo parziali per poter rispondere adeguatamente al compito che l’istituzione pubblica presume di addossarsi, sta prendendo corpo una fattispecie giuridica, indefinita nei contenuti e per questo pericolosa perché strumento disponibile per affermare per via legale quello che non si riesce ad affermare per via culturale e politica. 

Si dimentica così che le diversità, qualunque siano, diventano ricchezza solo quando sono disponibili a confrontarsi tra loro e a trovare in questo confronto un fondamento”secondo ragione” come qualche anno fa ha ricordato Benedetto XVI nel suo discorso di Regensburg.

Ma è più probabile che ci troveremo a correre sempre più velocemente lungo la strada che ci porta ad un nuovo, e forse peggiore, Ministero della Cultura Popolare. 

Leggi anche

SCUOLA/ Quei giovani ubriachi, "persi" tra divieti e felicità (che manca)SCUOLA/ Chiosso: senza regole avremo solo figli infeliciSCUOLA/ Attenti al "brutto sogno" di Elena Cattaneo, la scienza non è tutto