Le recenti vicende relative alla ripartizione delle risorse destinate alle assunzioni nelle università (stabilita con il DM 713/2013) hanno ricevuto notevole attenzione e non credo che ci sia molto da aggiungere rispetto ai commenti precisi e competenti che sono stati fatti. 

Per riassumere la vicenda in poche parole: il combinato di una classifica di merito «scientifico» e «finanziario» e della caduta di una clausola di salvaguardia (originariamente prevista) ha condotto ad una ripartizione che, ferma restando una media del turn over del 20% per l’università italiana, si distribuisce secondo le varie sedi su una forbice vertiginosa che va dal 213% al 7%. La prima in classifica è la sede dell’attuale ministro Carrozza, la quale tuttavia (sia personalmente sia tramite un funzionario del ministero) ha tenuto a sottolineare la sua estraneità a questi risultati, che sarebbero solo l’inevitabile esito delle norme vigenti. 



Alcuni però (tra cui il Consiglio universitario nazionale) hanno argomentato che tale esito non era affatto inevitabile; altri hanno mostrato come in ogni caso una via di uscita per riequilibrare i risultati c’è ancora; altri ancora hanno sottolineato come per il Miur non sia possibile trincerarsi dietro una ragnatela di norme ambigue di fronte a risultati dagli effetti devastanti; altri infine hanno notato che le regole che si vogliono far vigere lasciano alle università un’unica spiacevolissima possibilità per risalire la classifica: innalzare le tasse degli studenti. La previsione è in conclusione facile: se non vi saranno novità in proposito, la palla prima o poi passerà ai giudici e alla situazione già difficile si sommerà l’ulteriore caos.



A tutti i commenti finora fatti vorremmo aggiungere tre sottolineature. 

1. Una prima riguarda l’indifferenza che (dispiace dirlo) il ministero continua a mostrare nei confronti della didattica. La classifica di merito che è stata adoperata per l’assegnazione delle risorse riguarda ricerca e finanze: qualsiasi riferimento all’insegnamento è assente. Si insegna bene o si insegna male? I professori dalle molte pubblicazioni in riviste di classe A fanno lezione o mettono i loro corsi al sabato mattina venendo una volta sì e tre no? Gli studenti sono soddisfatti? vengono apprezzati una volta usciti dall’università? E dall’altra parte: i docenti gestiscono un carico di lavoro accettabile o sono costretti a seguire poco o male centinaia di studenti a causa della mancanza di colleghi che li aiutino? Fermo restando il rispetto delle tabelline dei «requisiti minimi», il corso di laurea riesce ad offrire un quadro disciplinare se non completo almeno organico?



Su tutto questo, il vuoto assoluto. È ovvio che, anche avendo una risposta a queste domande, non è facile stabilire una correlazione con le risorse da assegnare: ma non più difficile che con i criteri attuali. 

Intervistata questa estate da ilsussidiario.net riguardo all’importanza della valutazione della didattica nel reclutamento dei docenti, il ministro rispose che tale aspetto è demandato ai regolamenti di ateneo. Dispiace rilevare che questa risposta è evasiva, oltre che fattualmente molto discutibile.

2. Una seconda osservazione riguarda il concetto, giuridico oltre che morale, di responsabilità. Siamo ormai assuefatti a sentir parlare di provvedimenti «premiali» quando in realtà sono in gioco punizioni: queste sono lecite (anzi, troppo poco correnti nel sistema statale italiano), ma vanno chiamate con il loro nome. Ricevere una scodella di minestra alla sera non è un premio: piuttosto è una punizione essere mandati a dormire senza cena. Dunque, le università che ricevono risorse assolutamente insufficienti vengono punite

Ora, non ci vuole molto a capire che queste punizioni, se certamente toccano una classe docente che si sente così emarginata e frustrata, altrettanto sicuramente toccano gli studenti. Anzi: nel primo caso la punizione è largamente morale e simbolica (come cinicamente anch’io mi sono trovato a dire: in fondo lo stipendio ci arriva lo stesso), ma nella seconda è tutta reale: mancanza di insegnamenti, inevitabile scadimento della didattica e della ricerca, chiusura di corsi di laurea, conseguente necessità di cercare atenei o corsi differenti da quelli per un motivo o l’altro preferiti. 

La domanda semplice allora è: chi è il responsabile della bassa o infima posizione in classifica di molti atenei? Di sicuro non gli studenti. Il codice civile stabilisce: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (art. 2043). Se davvero si ritiene che molte università debbano essere punite, è troppo desiderare che vi sia un minimo di civiltà giuridica e che i responsabili (per esempio del dissesto economico) siano chiamati a risarcire il danno enorme che le loro scelte ora stanno arrecando? Se invece questi errori, mancanze o malversazioni non vi sono stati, qual è la ratio delle punizioni? Forse abbiamo poca fantasia, ma non riusciamo a trovare una terza possibilità.

3. Un ultimo rilievo. È giustificata la protesta per l’incredibile sperequazione che l’ultimo decreto introduce nella distribuzione delle risorse. Ma non vorremmo che essa sostituisse l’indignazione per il dato di partenza: e cioè il fatto che il turn over globale è fissato al 20%. Anzi, proprio questo limite (siamo sinceri) rende giustificabile la sperequazione: piuttosto che distribuire a ciascuno un ditale di minestra, è più sensato dare ad un paio di persone una scodella (anzi, anche due ciascuno), e mandare tutti gli altri a letto senza cena. Nel primo caso infatti vengono condannate a morte tutte le università, nel secondo almeno un paio sopravvivono. 

Parlare di morte non è esagerato: l’età media dei docenti diventa sempre più alta (io che a Tor Vergata sono il più giovane nel mio corso di laurea, ho l’età che un tempo è stata di un rettore!), il loro numero in diversi settori è crollato, e in molte sedi sta toccando il limite ultimo sotto il quale i corsi di laurea dovranno chiudere e i docenti (tra l’altro con uno sperpero scandaloso di risorse) riclicarsi in bizzarri corsi opzionali nelle poche lauree sopravvissute. 

Si tratta di una crisi dalla quale potrebbe essere impossibile rialzarsi: il problema non è solo il numero dei docenti, ma anche la continuità di uno stile di insegnamento e di ricerca, che considerando l’esiguità delle risorse (non dimentichiamolo) ha ottenuto risultati tra i migliori al mondo, checché ne dicano discutibili classifiche periodicamente riproposte. Si parva licet componere magnis: in alcuni settori di ricerca l’università italiana non si è più riavuta dopo la desertificazione conseguente alla cacciata dei professori ebrei durante il fascismo, o quanto meno ha perso un primato allora indiscusso. Sono tradizioni di studi che sono state troncate (via Panisperna dice qualcosa?). È questo che vogliamo, o a cui vogliamo rassegnarci? C’è chi lo dice esplicitamente, c’è chi dice (anche in Parlamento) che l’Italia farebbe bene a riconoscere di essere ormai una nazione culturalmente di serie B e a ritirarsi in buon ordine.

Da che parte sta il ministro? Quando Giavazzi nel celebre editoriale del 19 agosto sul Corriere della Sera invocò la chiusura delle Università di Messina, Bari e Urbino, spiegando alle famiglie che ciò era «nell’interesse dei loro figli», il ministro replicò con un tweet (contentiamoci): «Non sono d’accordo con questo approccio che chiudere è bello. Magari è meglio integrare, sostenere, modificare o aiutare». Peccato che poi il decreto di programmazione triennale firmato dallo stesso ministro il 26 settembre segua esattamente la massima del «chiudere è bello»: l’idea-guida è che in Italia ci sono troppe università, troppi docenti e troppi studenti, quindi coloro che aiutano a ridimensionare sono benvenuti e premiati: di «sostenere» e «aiutare» non c’è traccia, così come non c’è nel decreto 713/2013. Qui non c’è nessuna strategia di premio dell’«eccellenza», c’è piuttosto la messa in questione tutta politica dell’università come strumento di elaborazione culturale libera e destinata a tutti i capaci e meritevoli. 

I professori universitari come categoria non sono certo innocenti della diffusione di questa disistima dell’istituzione universitaria e dell’indifferenza generale con la quale si sta procedendo allo strangolamento di un settore di investimento vitale. 

Che il principio sacrosanto della continuità della scuola di ricerca sia troppe volte degenerato in favoritismi e nepotismi di ogni tipo è un fatto lamentevole, come lo è una gestione talvolta molto disinvolta della deontologia professionale, come lo sono stati esperimenti didattici senza capo né coda (qualcuno ricorda il mitico corso di laurea in Scienze dell’Allevamento, Igiene e Benessere del Cane e del Gatto?). 

Ma anche qui vorremmo che si applicasse con chiarezza il principio di responsabilità personale, e che i docenti che tentano, tra mille difficoltà, di portare avanti con dedizione l’istruzione superiore in Italia non si sentissero come gli ultimi anziani maggiordomi in un castello decaduto, che dopo il loro pensionamento sarà comprato da qualche facoltoso straniero e trasformato in albergo.