Dal 2010/11, anno in cui è partita la riforma della scuola secondaria, all’anno scolastico in corso, mentre complessivamente i licei hanno incrementato le iscrizioni alle prime classi (dal 46,2% al 49,1%, secondo i dati del Miur), il classico ha registrato un calo dal 6,9% al 6,1%; in crescita il linguistico (da 5,6% a 8,4%), anche se il più frequentato resta lo scientifico, attestato al 22,8%, di cui il 6,3% sceglie l’opzione scienze applicate (senza latino, con informatica e più ore di scienze naturali), confermando un orientamento prevalente della popolazione scolastica verso una formazione tecnico-scientifica. Perde qualcosa il nostro Paese se la cultura classica diventa un sapere di pochi? Si annebbia solo il ricordo di antiche radici oppure c’è qualcosa della nostra identità che è a rischio?
Ho già scritto in altra occasione sul valore civile della traduzione dal greco e dal latino, come paradigma di quel lavoro di rielaborazione che ogni interazione comunicativa, anche all’interno della stessa comunità linguistica, richiede. C’è ora un altro aspetto su cui vorrei fermare l’attenzione. Leggevo di recente che uno dei pericoli del nostro tempo è di attribuire all’uomo un libertà irrelata, “che si esprime come presa di posizione casuale, insindacabile, priva della necessità di fornire le sue ragioni, anzi di avere le sue ragioni” e, al tempo stesso, di credere che “la natura democratica di un ordine sociale sarebbe garantita dal rispetto di certe procedure di delibera e non dalla sua capacità di elaborare un consenso ragionevole” (E. Rigotti, Conoscenza e significato, 2009): il dibattito di questi giorni sulla decadenza del senatore Berlusconi è solo l’ultimo esempio delle aspettative che la classe politica ripone unicamente nella correttezza delle procedure, quasi senza più percepire la necessità di superare posizioni contrapposte attraverso una discussione critica delle ragioni, per risolvere le divergenze e avvicinarsi ragionevolmente alla decisione più giusta.
Gli Ateniesi del V secolo a.C, inventori della democrazia, avevano fondato il loro sistema di governo proprio sulla discussione libera tra i cittadini, che aveva lo scopo di costruire il consenso necessario per le scelte della comunità civile. Nell’assemblea ogni cittadino prendeva liberamente la parola e parlava per sottoporre le sue ragioni al vaglio degli altri membri dell’assemblea; l’unica forza legittimata era quella della parola, perché strumento per la formazione di un libero consenso, dunque per una convivenza realmente libera (si legga E. Rigotti, S. Greco, Argumentum, 2005).
La letteratura greca conserva memoria di questo atteggiamento argomentativo su cui si fonda la vita comunitaria fin dalle epoche più antiche.
All’inizio dell’Iliade l’assemblea dei guerrieri achei discute dell’epidemia che miete vittime nell’esercito; quando l’indovino rivela che si tratta di una vendetta divina contro il re Agamennone, capo della spedizione, che ha rifiutato di restituire al sacerdote di Apollo la figlia che egli tiene come bottino di guerra (ghèras), inevitabilmente entrano in conflitto la salvezza comune e l’onore personale: infatti la privazione del ghèras implica una diminuzione degli onori (la timè) su cui si fonda quel pubblico riconoscimento del valore (klèos) che è il bene supremo per l’eroe.
Agamennone si dichiara disposto a restituire la ragazza, ma pretende come compenso un dono adeguato, anche a costo di toglierlo a uno degli altri re. Alla minaccia Achille contrappone un incalzante argomento: «Come potranno ubbidirti (peithetai) volentieri gli Achei?» (v. 150). Il verbo peithomai, significa “obbedisco in quanto mi lascio persuadere” ed è collegato a pìstis, “fiducia”: indica dunque che Agamennone è capo della spedizione in forza di un patto di reciproca fiducia con gli altri re al seguito. Per Achille la minaccia di impadronirsi del gheras altrui ha infranto la pistis, perciò è venuto meno il suo diritto alla supremazia. E rinforza la sua argomentazione ricordando il carattere personale e non panellenico della guerra (“Non sono venuto a combattere qui perché mi sono nemici i Troiani… ma abbiamo seguito te, perché tu gioissi, cercando soddisfazione per te e per Menelao”, vv. 152-160) e l’illegittimità della pretesa di revocare unilateralmente il gheras meritato sul campo e assegnato dall’intero esercito (“minacci di portar via il dono per cui ho molto faticato e che mi hanno assegnato i figli degli Achei” vv. 161-162). Perciò egli preferirà tornare in patria, se privato degli onori.
Messo alle strette da questa motivata accusa Agamennone ha un’unica via di uscita: spostare il conflitto su un piano personale. Perciò nella sua replica il proposito di tornare in patria diventa una vile fuga (“Fuggi pure!”, v. 173), il conflitto è attribuito a una inimicizia (“fra tutti i re di stirpe divina tu sei per me il più nemico: sempre infatti ti sono care contesa, guerre e battaglie”, vv. 176-177); dunque proprio ad Achille toglierà il gheras perché nessuno si permetta più di parlargli da pari. Da un lato ragioni fondate su valori condivisi (il klèos, la timè, la pistis), dall’altro un attacco personale che culmina in una decisione autoritaria: l’assemblea degli Achei e gli spettatori-uditori del canto sono messi nella condizione di giudicare e imparare.
Dal mondo greco possiamo anche noi lettori imparare il valore dell’argomentazione, quel discorso che in un conflitto di opinioni si impegna a mostrare le ragioni, a giustificare scelte e prese di posizione allo scopo di arrivare ad un ragionevole consenso; e al tempo stesso siamo sollecitati a quell’impegno critico che consente di difendersi dalle manipolazioni e che perciò è una virtù civile essenziale.
Nei tribunali ateniesi, ad esempio, il dibattito processuale era costituito dal contrapporsi dei discorsi di accusa e di difesa di fronte a una giuria di cittadini estratti a sorte, che non avevano competenza giuridica specifica: l’esito perciò dipendeva dalla forza persuasiva dell’orazione, che si serviva anche di strategie manipolatorie. L’orazione di Lisia in difesa di un invalido a cui viene contestato il diritto al sussidio smonta con abili mosse le accuse. Ad esempio: l’accusatore sostiene l’integrità fisica dell’accusato e adduce come prova il fatto che va a cavallo. L’invalido replica: “È naturale che tutti quelli che hanno una menomazione concentrino i loro sforzi e i loro pensieri su come potersi adattare nel modo meno doloroso possibile alla sventura che è toccata loro. Io sono uno di quelli, e, dato che mi è capitata questa disgrazia, mi sono trovato questo aiuto per quando devo fare viaggi più lunghi. E questa è la prova lampante del fatto che vado a cavallo a causa della mia menomazione e non, come dice lui, per oltraggio” (par. 10).
L’argomento è un sillogismo retorico: a) chi ha menomazioni cerca di adattarsi alla disgrazia (“è naturale”, cioè è una evidenza condivisa); b) io ho una invalidità che mi impedisce viaggi lunghi (un dato); c) anche io mi sono adattato alla disgrazia andando a cavallo (la conclusione). Così una prova dell’accusa è volta a favore della difesa; inoltre si insinua che l’accusatore ha mal interpretato l’andare a cavallo perché è estraneo alle convinzioni comuni.
Invitati a vagliare il ragionamento per verificarne la correttezza, i miei studenti hanno notato che quello che è presentato come dato (l’invalidità) è materia del contendere e quindi ancora da dimostrare! E ancora: per smentire l’accusa di potersi mantenere anche senza il sussidio, l’accusato argomenta: “Mi pare che proprio il mio accusatore sia la sola persona che potrebbe dare l’esatta misura della mia povertà: se infatti fossi stato prescelto a pagare la coregìa per le rappresentazioni tragiche e lo invitassi a uno scambio di beni, preferirebbe pagare dieci volte la coregìa piuttosto che scambiare una sola volta i nostri patrimoni!” (par. 9).
Se si arrivasse allo scambio di beni, a cui poteva ricorrere il cittadino chiamato a pagare una di quelle sostanziose contribuzioni imposte ai più ricchi, certamente l’accusatore rifiuterebbe di scambiare i beni con l’invalido: dunque l’invalido non è ricco e l’accusatore lo sa bene! La manipolazione qui è più scoperta: il rifiuto dello scambio può solo dimostrare che l’accusatore è più ricco dell’invalido, ma non è prova della sua povertà; per di più il rifiuto è solo una supposizione dell’invalido. Ma in tribunale “i giudici ascoltano l’orazione una volta sola”, come rispose lo stesso Lisia a un cliente che criticava il discorso scritto per lui, efficace alla prima lettura, ma debole alla seconda (Plut. Moralia, 504c). Quanto del nostro dibattito pubblico rivela la sua inconsistenza se ascoltato con distanza critica!
Mentre lavoriamo su questi testi (Omero, l’oratoria, e la lirica, la tragedia, la storiografia…) cercando di individuare e vagliare le mosse argomentative, in classe ci fermiamo spesso a discutere sulla responsabilità a cui siamo chiamati nei confronti del nostro Paese: la responsabilità di consegnare al futuro, attraverso la memoria, ma anche attraverso scelte, decisioni, azioni, l’esempio di uomini che hanno fondato il vivere civile sull’impegno della ragione ancor prima che sull’impegno etico, riconoscendo che “gli uomini hanno una tensione naturale al vero” e che “per natura il vero e il giusto sono più forti del loro contrario” (Arist.Retorica, 1355a).
È la certezza della forza vincente di questa attrattiva che il mondo classico ci ha lasciato in eredità e che può rigenerare l’attitudine al ragionar civile e quindi la vita democratica. La nostra civiltà in crisi, la nostra travagliata società può permettersi di disperdere questa eredità? Sotto questa luce il liceo classico forse può rivelarsi un po’ diverso dallo stereotipo di scuola difficile e distante dalle sfide del presente.