Ricorre periodicamente l’ipotesi, in forme più o meno eclatanti, di poter educare i figli facendo a meno della scuola. Stavolta è l’autorevole quotidiano britannico Daily Mail a rilanciare la proposta con un ampio articolo che presenta la scelta controcorrente da una madre scozzese.
La signora Maryanne Jacobs ha deciso di provvedere direttamente all’educazione dei figli senza inviarli a scuola e senza neppure mettere in atto un piano di istruzione casalinga (in italiana si direbbe “paterna”). Non un caso, dunque, di homeschooling, bensì una più radicale opzione per l'”unschooling” ovvero un’ampia liberalizzazione educativa di segno anti-autoritario. Una specie di ritorno all’educazione naturale enunciata 250 anni orsono da Jean Jacques Rousseau.
Dopo aver frequentato per un breve periodo la scuola, i due figli di Maryanne hanno ora come risorsa principale il loro personal computer e l’apprendimento “mediante dirette esperienze di vita come giocare, fare trucchi di magia, leggere i libri preferiti, passeggiare nel parco e osservare la natura. È difficile spiegare come funziona l’apprendimento naturale – ha dichiarato la madre – ma vedo che funziona”. Entrambi i bambini in età da scuola elementare sanno leggere e scrivere e la signora Jacobs crede che siano più avanti di altri ragazzi della loro età che frequentano la scuola.
Non mancano conferme al fatto che i bambini sono capaci di apprendere da soli se posti nelle condizioni di poterlo fare in modo appropriato. Sono largamente note, ad esempio, le iniziative – ben più solide dello spontaneismo della signora Jacobs – realizzate in India da Sugata Mitra (note come Hole in the Wall, “il buco nel muro”). Secondo queste esperienze i ragazzi sono in grado di imparare rapidamente e senza aiuti il funzionamento di un computer, usarlo in modo adeguato, apprendere da soli e in modo più efficace dei loro compagni che frequentano la scuola.
Forte di queste esperienze il prof. Mitra è convinto che il futuro della scuola sia una “non scuola”, dai locali al ruolo degli insegnanti: non più la sede dell’apprendimento diretto e sistematico, ma un semplice “ambiente d’apprendimento auto organizzato”.
Basta avere un minimo di familiarità con le vicende scolastiche degli ultimi decenni – e dunque senza rievocare il celebre pamphlet di Giovanni Papini del 1914, Chiudiamo le scuole – per ricordare altre voci drasticamente alternative verso la scuola tradizionale, come le proposte descolarizzatrici di Ivan Illich (l’istruzione andrebbe riconsegnata alle comunità sociali di appartenenza) e le tesi di James Holt, teorico dell’istruzione casalinga al posto di quella istituzionale.
Mentre in Illich prevaleva la preoccupazione che la scuola troppo istituzionalizzata corresse il rischio di servire più all’occupazione dei docenti che alla crescita culturale degli alunni, Bolt era invece convinto che solo “la famiglia è la base adeguata per l’esplorazione del mondo che intendiamo per apprendimento o istruzione, non importa quanto siano valide le scuole”. In entrambi i casi espressioni di minoranza e in controtendenza con i grandiosi processi di scolarizzazione specialmente pubblica che hanno segnato i decenni successivi alla seconda guerra mondiale.
In tutto il mondo del benessere e tecnologicamente avanzato nel frattempo sono notevolmente cresciuti i casi di homeschooling, in specie nei Paesi anglosassoni. Il fenomeno della cosiddetta “istruzione paterna” (garantito anche dalla Costituzione italiana e regolamentato da norme del 2005), in aumento anche in Italia, si presenta da noi ancora con dimensioni quantitative piuttosto modeste.
Le esperienze di homeschooling hanno spiegazioni diverse: motivi religiosi e culturali, esigenze pratiche, diffidenza verso le pratiche educative scolastiche non sempre ritenute idonee, casi di alunni disabili. Esiste tuttavia un minimo comun denominatore che le tiene insieme e cioè la convinzione, associata a una diffidenza più o meno esplicita verso la scuola, che alla famiglia spetti un ruolo attivo non solo sul piano educativo generale, ma anche in termini di vera e propria istruzione.
Anche se c’è più di una ragione di prudenza per accettare le ragioni e le riserve dei genitori favorevoli all’homescholing (la scuola, pur con tutti i suoi difetti, costituisce in ogni caso un ambiente di introduzione alla storia culturale comune e di socializzazione secondaria di cui è assai problematico fare a meno), non oscurerei la crescita del fenomeno, e anzi lo terrei nel giusto conto perché esso costituisce l’ulteriore spia della difficoltà dell’istituzione scolastica di dare risposte credibili e coerenti con i bisogni formativi infantili e giovanili oggi assai più complessi da soddisfare rispetto al passato.
Una scuola tuttora monolitica e granitica di taglio ottocentesco (come, tutto sommato, appare ancora quella italiana) sembra poco adatta a cogliere la varietà delle situazioni e delle aspettative di famiglie e alunni. La questione che da più parte comincia a essere seriamente discussa da studiosi molto seri e autorevoli – non a caso – è precisamente finalizzata a indagare le possibili vie per delineare “un’altra scuola”, diversa da quella che conosciamo e cioè flessibile sul piano organizzativo, capace di dialogare con la pluralità degli ambienti educativi, ordinata sui princìpi della didattica personalizzata, frequentata dai migliori laureati e non solo da quanti non hanno trovato altro lavoro.
Insomma soluzioni che poco si conciliano con il neo-centralismo ministeriale che sembra accompagnare il governo della scuola di questi ultimi tempi.