Se Natale è la Buona Novella per i cristiani, questo periodo rimane anche in un sentore post-cristiano, almeno come auspicio a cui non si riesce, fortunatamente, a rinunciare, il tempo delle “good news”, soprattutto se le “good news” riguardano il mondo della formazione dei docenti nella scuola, e soprattutto se il tutto ha a che fare con una reale crescita di professionalità dei docenti, quali quelli che vogliono/debbono cimentarsi con il Clil (Content and language integrated learning), vale a dire l’insegnamento combinato di un contenuto ed una lingua straniera.
Good news è l’annuncio dato dell’attivazione per la Lombardia di 33 corsi linguistici e 7 corsi metodologici Clil rivolti a docenti Dnl (docenti di discipline non linguistiche), protagonisti già dal 2012/13 dell’erogazione di percorsi Clil nei licei linguistici e, dal 2014/15, in tutte le classi quinte di licei e istituti tecnici. Gisella Langé, ispettrice Miur, ha dato la “good news” del finanziamento dei corsi linguistici e metodologici nel corso del terzo seminario di studio “Workshop Clil: la teoria della pratica”, tenutosi recentemente (6 dicembre) presso l’Istituto alberghiero don Carlo Gnocchi di Carate Brianza, ed organizzato da quattro scuole non statali, I’Istituzione don Carlo Gnocchi, il Liceo Candia di Seregno (MB), La Traccia di Calcinate (BG) e l’Associazione Cometa (CO), collettivamente indicate come l2teach, coloro che sono impegnati in un percorso di “learning to teach”.
Le notizie, tuttavia, potrebbero non essere so good. Il rapporto fra 33 (corsi linguistici) e 7 (corsi metodologici) mostra che anche in questa seconda tornata di corsi un numero significativo di docenti Dnl, pur in possesso dei titoli richiesti (laurea disciplinare, in servizio in un liceo linguistico statale, livello di competenza linguistica C1 – cioè un livello medio-alto – certificato o B2 in ingresso, da portare a C1 in associazione al conseguimento della certificazione, detta “abilitazione” Clil) non potrà essere accolto nei corsi metodologici.
D’altronde, che senso avrebbe certificare secondo la metodologia Clil docenti il cui livello di competenza linguistica non sia sufficiente ad andare in classe e far lezione? La scelta di privilegiare la formazione linguistica, pur in presenza di numerosissime proposte di corsi di ogni lingua per ogni livello, in una situazione di libero mercato, è certamente un fattore di forte incentivazione per i docenti e la miglior soluzione possibile nella situazione di quasi emergenza che si è venuta a creare. Che è legata alla (im)possibilità di formare tutti i docenti Dnl in tutti i licei e istituti tecnici del territorio nazionale entro settembre 2014, data di avvio del Clil in tutte le quinte e quindi, con il primo esame di Stato a giugno 2015 delle prime classi della Riforma, momento di verifica reale dello state-of-the-art per il Clil (e tutta la Riforma) in tutta Italia.
Detto ciò, la Lombardia appare come un caso particolarmente felice (soprattutto alle due docenti arrivate da Teramo per partecipare al seminario sul Clil) per chi insegna in uno degli 80 licei linguistici statali, anche se non si può dire lo stesso per chi è in servizio, o forse è più corretto dire “assunto”, trattandosi di “aziende” di varia natura, spesso cooperative di genitori, presso uno dei 40 licei linguistici paritari presenti nella regione, questi ultimi esclusi, fin dalla prima tornata di corsi e nel silenzio generale, dal percorso di formazione e certificazione rispetto all’adempimento pur loro richiesto dell’obbligo di legge e il loro attuale coinvolgimento nelle rete e sottoreti regionali Clil. Ma anche nella fortunata Lombardia basteranno a formare e certificare tutti i docenti i 7 corsi metodologici in attivazione, finanziati, assieme ai 33 corsi linguistici, attraverso uno stanziamento di 335mila euro per la formazione, e che andranno ad affiancarsi ai tre corsi in tutta la Lombardia (numero massimo di 30 partecipanti come da bando dell’aprile 2012) della prima tornata? Probabilmente no, anzi, sicuramente no, almeno per tutti i docenti Dnl dei linguistici paritari che sono, a mio parere secondo una norma ai limiti della legalità, esclusi dalla formazione.
Se le risorse umane e finanziarie non sono molte, un modello cooperativo e sussidiario può forse essere di aiuto? Un modello quale quello offerto dall’azione congiunta delle quattro scuole non statali che hanno dato vita, in poco più di un anno e mezzo di attività, a tre seminari di formazione sul Clil in continuità fra loro, attenti a recepire le richieste dei numerosi partecipanti e capaci di coinvolgere docenti di scuole anche statali come relatori e tutors di laboratorio, secondo la logica de “La buona scuola all’opera”, il titolo del secondo seminario del 13 aprile 2013?
Il terzo seminario ha visto la partecipazione di circa 120 docenti, per la stragrande maggioranza docenti Dnl; la percentuale dei docenti Dnl è salita dal 40% circa del primo seminario del 23 novembre 2012 all’attuale 73%, e i docenti di lingue straniere presenti provenivano in gran parte dalla secondaria di primo grado, dove i percorsi Clil sorgono per libera iniziativa e non per obbligo di legge, e dove i contenuti disciplinari, vista età e competenze linguistiche degli studenti, sono meno complessi. Entrambi i dati statistici sono segnali sia della urgenza del tema che della validità del percorso di formazione offerto nei seminari per chi ne deve/vuole essere il soggetto erogatore. Altra good news.
È da segnalare tuttavia che, per alzata di mano su richiesta di Langé, solo un 10% circa dei partecipanti al seminario aveva letto un documento fondamentale per l’attuazione dei percorsi Clil, le cosiddette “Norme transitorie”, che contengono fra le altre un’indicazione fondamentale dal punto di vista metodologico; non 100% Clil (come originariamente previsto dalla Riforma dei cicli), ma massimo 50% del monte ore curricolare, a salvaguardia della lingua madre nella disciplina in cui si sia previsto l’attivazione della metodologia Clil. Man mano che le domande della Langé si inoltravano sulle risorse disponibili on line per la formazione, le mani erano sempre meno numerose.
Gli stessi docenti che hanno partecipato alla plenaria della mattina si sono riversati nel pomeriggio nei workshops, condotti da dieci docenti; due worshops, geografia e storia, erano relativi alla scuola secondaria di primo grado, e cinque, filosofia, fisica, scienze naturali, scienze umane e storia, alla secondaria di secondo grado. I tutors hanno proposto percorsi sperimentati, ponendo la loro ipotesi di lavoro ed esponendosi al giudizio di colleghi, quasi sempre di disciplina. Il sentore finale era la soddisfazione, in molti dei tutors, di aver condiviso un lavoro ricco di domande, e alla fine dei workshops moltissimi dei partecipanti hanno acconsentito a condividere i loro contatti attraverso l’azione di l2teach, in modo da continuare a lavorare assieme. Segno evidente di un bisogno di formazione che sia condivisione di esperienze ragionate e ragionevoli. Il questionario riconsegnato da 75 partecipanti, alla voce “Quali suggerimenti darebbe per migliorare l’offerta formativa in eventi futuri?”, presenta due indicazioni ricorrenti: ampliare lo spazio dei workshops nei seminari futuri, e dare spazio alle domande dei partecipanti. Vale a dire, diamo a Cesare quel che è di Cesare. Diamo la scuola a chi fa la scuola. E questa è sicuramente un’altra good news.
Ma la good news più rilevante del terzo seminario è, a mio parere, il fattore di criticità introdotto dai lavori del seminario, e rappresentato dall’intervento finale di Silvia Gilardoni, ricercatrice nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presente da sempre ai seminari e responsabile dei corsi metodologici Clil dell’Università, e dalla relazione introduttiva di Giovanni Gobber, ordinario di Linguistica generale presso la medesima università. L’intervento di Gobber, dal titolo provocatorio “Content and languge, un binomio problematico”, ha sollevato non poche e non facili “questions”, dalla prima, “Stiamo imparando l’inglese delle materie, o le materie in inglese (o altra L2)?”, a quella relativa alla diversità nelle scienze, pur essendo la lingua inglese la lingua della comunicazione scientifica, fra la tradizione americana (metodo induttivo basato su case studies da generalizzarsi) e tradizione europea (dalla legge generale al caso). Inoltre, che accade della dimensione empatica quando si usa una lingua che non si padroneggia, e che dire della complessità della lingua orale con tutti i suoi aspetti prosodici?
Non una ma molte domande, quelle che fanno l’ossatura della “teoria della pratica” e della criticità, intesa non come dubbio sistematico e paralizzante, ma come esercizio continuo di ragionevolezza, in cui in una materia, sia essa la materia insegnata in metodologia Clil o no, “emergono delle domande che non erano emerse dalla spiegazione”, “dei casi che non erano emersi prima”. Questo “accadimento” è, nelle parole di Gobber, quanto segnala che uno studente sente la “materia come propria”. Questo dovrebbe valere anche per un docente che abbia fatto o voglia fare Clil, vale a dire che in lui o lei emergano “domande che non erano emerse dalla spiegazione”. Oppure dalla lettura della norma dello Stato.
Purché, come ha concluso Gobber, si possa ancora “fare un’azione libera”. E questa è sicuramente la good news più desiderabile.