L’insegnante lo interrogò sul V canto dell’Inferno. Andava sul sicuro quando lo chiamava. Perché lui era proprio uno di quelli che si faceva trovare sempre puntuale all’appuntamento. Era un piacere sentirlo parlare, in quella classe rumorosa e disinteressata, che lei non ne aveva potuto cavare un ragno da un buco. Invece c’era lui: bravo, bravissimo. Conosceva Dante. Voglio dire, era tutto quello che un insegnante avrebbe potuto desiderare: attento, parafrasava, approfondiva, cioè presentava parallelismi fra i sesti canti politici delle tre cantiche, osservava le figure retoriche presenti, dagli anacoluti alle metonimie, e chiosava certe terzine ripetendo quello che la professoressa aveva spiegato. Che soddisfazione, sentirlo esprimersi con un’indignazione così equilibrata sulla corruzione del mondo, attualizzando le invettive trecentesche comunali e imperiali. C’era davvero da sentirsi compiaciuti per aver plasmato, negli anni, un probabilissimo 100 agli esami di Stato: forse si sarebbe perfino iscritto a Lettere. C’era solo da aspettare.
Lei si rivedeva in lui. Perché grazie a lui i suoi sacrifici venivano ripagati. Tante volte si lamentava dei suoi alunni, ma lui le dimostrava che lei aveva ancora ragione. Ormai non se ne fregavano più niente, i ragazzi. E lei, che era una persona seria, e che credeva al valore della cultura in chiave di cittadinanza attiva, continuava a parlare di allegorie, delle tre fiere interpretabili come lussuria, superbia e cupidigia, delle possibili personificazioni del veltro, del superamento dell’amor cortese nel canto di Paolo e Francesca e della ýbris di Ulisse, della concezione figurale di Auerbach e di come potevano non interessarsi ai dvd di Benigni.
Quell’altro alunno, invece, non aveva mai brillato. Poche allegorie, non sapeva nemmeno che «d’ogne luce muto» era una sinestesia né si era soffermato sulle tre anafore di «amor» e l’ipotesto guinizelliano. Anche quel giorno si prese il suo 5, perché poteva fare di più: non sapeva neanche chi fosse, Andrea Cappellano. Quella volta però il ragazzo si lanciò in una domanda un po’ rude: «Scusi, prof, ma a me, dell’amor cortese, che diavolo me ne frega?». Era inaudito, era il segno della decadenza. Non solo non aveva studiato, ma si permetteva di fare l’arrogante: «se lei li incontrasse oggi, due come Paolo e Francesca, lei davvero li metterebbe all’inferno?». L’insegnante gli borbottò contro qualcosa. Non c’entrava niente, quella domanda. Non si faceva certo mettere in scacco da considerazioni estemporanee che niente avevano a che fare con il linguaggio specifico e la padronanza dei contenuti fondamentali della disciplina letteraria.
Però lei era intelligente, e in quei giorni le capitò di ripensarci. Quella domanda così sprovveduta aveva aperto una crepa, da cui involontariamente iniziavano ad affacciarsi intuizioni e interrogativi. Era una maniera senz’altro ingenua, tipica di chi non ha fatto studi classici.
Però: «se lei li incontrasse oggi…». Sì, se li vedeva: vide che mai si era chiesta se quell’amore del quinto canto poteva chiamarsi amore oppure no, se sua figlia, se lei da ragazza, se i suoi alunni c’entrassero per caso qualcosa con quel canto. Eccoli, quei due, alle 8, davanti al cancello della scuola, che si baciavano la bocca senza nemmeno tremare: beh, quella cosa lì in effetti non era amore, era una ragione sottomessa all’ormone.
Le stelle, poi, quelle tre epifore in clausola a ciascuna cantica, le piombarono addosso, una sera, chiedendole: «ma tu che ci hai spiegato da trent’anni, tu ti sei mai sentita disposta a salire fin qui, come sta scritto in fondo al Purgatorio?». In effetti, ne aveva sempre parlato e non le era mai successo di desiderarlo. Non avrebbe saputo fare un esempio concreto, accaduto, di una qualsiasi delle affermazioni di Dante. Un Ulisse non l’aveva mai incontrato, e forse per questo dopo il ventiseiesimo canto assegnava temi sui limiti della scienza e sul rapporto con la fede: perché le mancava l’esperienza di un Ulisse, di un andare oltre, di un naufragio.
Certo, ne aveva passate tante nella vita, ma erano fatti suoi, i suoi dolori profondi e nascosti. Da non dare in pasto a quelle fiere. Ulisse andava oltre: ma oltre cosa? Lei stava tanto bene, qui. Cosa fosse quella voglia di andare al di là delle colonne d’Ercole, fuori dai libri, non se lo ricordava più. Né si era più sentita dentro una selva oscura, o forse ci si era assuefatta: era la selva del peccato e basta, quella, Sapegno docet, le note parlavano chiaro.
Iniziava tuttavia a tremare di un terrore inconfessato. Di dover ritornare in quella classe, e incrociare di nuovo lo sguardo di quel 5. Se lo immaginava mentre la aggrediva di domande, in un’interrogazione senza scampo: «Lei, prof, lo sa cos’è la selva oscura? Sa come ci si sente a trovarcisi dentro? Lei che parla tanto di Virgilio come allegoria della ragione, lei, ce l’ha qualcuno a cui grida “miserere di me”? Segue qualcuno o fa da sola? Ne ha bisogno o ritiene che ognuno deve cavarsela da sé e che Dante, siccome segue una guida, sia un debole? Se io mi mettessi a seguire qualcuno, cosa penserebbe di me? Lei ce l’ha una Beatrice? Mi racconta “una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare”? Ha bruciato d’invidia pensando a cosa mai potesse avere Beatrice più di lei, perché proprio a lei sia capitata la fortuna di un Dante che l’ha amata così, e che ha detto di lei quello che nessuno ha mai detto di nessuna?
Non le rode, non vorrebbe essere amata così anche lei? Da quanto non piange su un verso, lei che parla della pietà di Dante? Nei suoi occhi, in classe, non l’ho mai vista, la paura e la rabbia e il dolore, e la voglia di attraversare l’inferno: succedono anche a lei, come a me? E sprofondando nella Commedia si è convertita? Ha cambiato idea su Dio, è veramente il “sommo piacer” o la pensa ancora come se Dante non avesse mai scritto un verso? Il Paradiso le manca, non vede l’ora di goderselo? E alle Muse ci crede davvero? Lei parla di peccati, ma i peccati ce li hanno i politici che vorrebbe mettere nel suo personale inferno o ce ne ha pure lei? Anche lei si sente addosso le sette P che Dante si ritrova in fronte salendo la montagna del Purgatorio? Il perdono all’ultimo istante, come quello di Buonconte, l’ha mai provato sulla sua pelle?».
Forse in tutti quegli anni di coscienziosa professione si era persa il meglio. Forse quel 5 era il suo spiraglio. Sarebbe dovuta rientrare in classe e ammettere: «Ragazzi, in tutti questi anni non mi sono mai chiesta cosa c’entrassero con me certe parole, non mi sono mai lasciata sfidare, non ho mai cercato nel tempo libero, fuori dai libri, le cose di cui Dante ha parlato. Mi sono difesa dietro tutto quello che sapevo ma, mi spiace dirvelo… vi ho presi in giro. Volete capire un po’ il quinto canto? All’uscita vi aspetto a quell’angolo: ci metteremo a guardarli di qui, i vostri amici, mentre si baciano la bocca senza tremare, e mi dovrete dire se quella roba lì si chiama amore». Immaginava lo sguardo attonito del secchione, la sua incredulità. In un attimo odiò quella faccia, perché le fu fin troppo chiaro che tutti quei 9 non avevano segnato alcun interesse reale. Se il ragazzo da 9 avesse incontrato Dante per strada, avrebbe senz’altro tirato dritto, non avrebbe perso tempo a guardare il mondo con lui: c’era troppo da studiare per il giorno dopo. Il ragazzo da 5 se ne sarebbe fregato dello studio, lui sì, avrebbe girato l’aldiqua e l’aldilà insieme a Dante.
C’era da ricominciare tutto, insomma. Cambiare metodo, spiegazioni e interrogazioni. Dire che erano balle le allegorie, che l’allegoria della superbia non fa paura, che fa più paura un cane randagio se ti abbaia contro e sei da solo in una strada isolata. Che l’amor cortese, a parte quel che aveva letto da Luperini, non sapeva manco lei che cavolo era, e che quella di Paolo e Francesca sotto sotto poteva chiamarsi pomiciata, altro che amor cortese!
E che l’inferno… già, che diavolo è l’inferno? Davvero le fiamme, le corna e i forconi? La favoletta della voragine con al centro Lucifero e i gironi e le bolge eccetera eccetera? «Voi l’avete mai visto l’inferno?»: avrebbe potuto cominciare così, la sua prima lezione di una nuova carriera. «Mettiamoci insieme a guardare il mondo e a vedere dove si insinua l’inferno, in noi, nei nostri amici, nel mondo intero. Proviamo a guardare le cose con gli occhi di Dante, con la spina nel fianco delle sue parole».
Era una tentazione troppo attraente. Un brivido le salì lungo la schiena: sospettò che tra l’altro questo nuovo metodo non fosse nemmeno il regno dell’improvvisazione e del giovanilismo, e che chiasmi e teorie dei due soli, anzi, erano solo giochini rispetto a tutta la strada che ci voleva per imparare a guardare quei disgraziati dei suoi alunni come Dio aveva guardato Manfredi, e per sentirsi rigirata in ciò che desiderava e che voleva, che è l’approdo dichiarato del poema. Insomma, lei era sì esperta dei libri, ma uno come fa a essere esperto dei libri se non brucia per «divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore»? Va bene, non sarebbe bastato soltanto l’«ardore», altrimenti anche lei non avrebbe evitato il naufragio. Ma ormai, come Ulisse, aveva visto l’oceano, quello sterminato che sta fuori dal mediterraneo dei paragrafi. Magari si sarebbe sentita un po’ spersa all’inizio, e forse non solo all’inizio. Sarebbe entrata nell’«alto mare aperto», oltrepassate le colonne d’Ercole delle note al testo. Ne valeva la pena.
Ma giunta a tanto «picciola vigilia» non se la sentì. C’era il programma da mandare avanti. Le spiegazioni da fare. Le interrogazioni da finire. Gli strumenti da fornire agli studenti. Le competenze. I bes. I pof. Le allegorie. Il saggio breve. Il progetto teatro. Il corso sulla legalità. Le lecturae Dantis. Non si poteva proprio. C’era tutto Dante ancora da fare. E da far odiare.