Probabilmente è da quando, nella seconda metà dell’Ottocento, Ivan Turgenev scrisse Padri e figli che non si assiste a un periodo così particolarmente propizio per riflettere o raccontare intorno alle relazioni genitori-figli, sui problemi che ne nascono, sulle difficoltà che generano, sulle domande che sorgono e necessitano risposte. Lo scrittore russo voleva documentare, attraverso le storie incrociate di rapporti tra genitori e figli, come le nuove idee rivoluzionarie e nichiliste in arrivo dall’Europa “illuminata” si facevano largo nella società russa ed erano destinate a trionfare nella mentalità dei più. A causa di questo romanzo taluni l’hanno ritenuto un profeta e, forse, non si sono sbagliati; mai come in questi ultimi anni, infatti, si palesano sotto gli occhi di tutti gli esiti di questo pensiero che – come malattia mortale sotto le spoglie di gaia sicurezza – ha portato a rompere nessi, fili e trame dei rapporti tra i giovani e chi li ha generati. 



Gli effetti si vedono negli adolescenti, nei figli, ma anche nelle madri e nei padri, nei genitori: non è solo un cambiamento di comportamenti, arriva a modificare le concezioni e, è storia di questi mesi, anche le normative e le legislazioni.

Per personale esperienza lo osservo in un ambiente – l’università – dove fino a qualche anno i genitori erano un “target” sconosciuto, arrivavano solo il giorno della laurea; oggi non solo riempiono le aule durante gli “open day”, ponendo domande al posto dei figli sul futuro dei figli, ma si stanno sostituendo a loro in quello che ai figli compete: affacciarsi alla realtà adulta in un processo continuo di apprendimento, che diventa anche professionale, ma che è soprattutto umano ed esistenziale.



Che uomini saranno quei figli che non sono trattati da figli adulti, ma da bambini incapaci? Con che statura umana, con che personalità affronteranno domani le difficoltà della vita se oggi hanno degli “avatar” che le affrontano al loro posto?

Tra i molti libri, dunque, che si sottopongono al vaglio dei lettori, non dovrà passare inosservato questo agile volume di Luigi Campagner (Figli! O Del vantaggio di essere genitori, Lindau, 2013). Per alcune buone ragioni. 

Innanzitutto l’autore: oltre ad essere padre (e ciò non guasta quando si parla di genitorialità), è psicanalista, formatore e consulente di scuole e comunità di accoglienza; questo lo rende “autorevole” nella sua esperienza personale che viene a piene mani elargita lungo le pagine.



In secondo luogo lo stile, che deriva da quanto detto sopra: esperienze e scoperte fatte e comunicate con un’attenzione a non sostituirsi al lettore, ma tese a coinvolgerlo; non istruzioni per l’uso, ma – parola spesso usata dall’autore – una proposta di lavoro personale.

Da ultimo il contenuto (che non voglio completamente svelare): è affrontato il tema del rapporto con i figli con uno sguardo portato dal dark side, dalla parte nascosta, dalla parte che normalmente è esclusa, quella dei figli appunto, ma con l’implicazione esplicita di essere “a vantaggio” (bella e misconosciuta parola) dei “patres”, lemma che accomunava in latino − e ancor oggi in spagnolo come giustamente sottolinea l’autore − l’unità di madre e di padre, relazione vivente e sana per l’educazione dei figli.

Già, educazione. Di questo si tratta nel libro, ma senza saccenza, piuttosto con kierkegaardiani timore e tremore.

Desiderio, pensiero, soddisfazione, sfida, giudizio diventano, così, a poco a poco gli strumenti che un genitore si trova tra le mani in sé o scoprendole nei figli; e l’educazione diventa avventura.

Tornano alla mente le parole del grande Péguy: “C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno. È il padre di famiglia. Gli altri, i peggiori avventurieri, non sono nulla, non lo sono per niente al suo confronto. [….] Tutto è contro di lui. Tutto è sapientemente organizzato contro di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti, l’accadere, la società, tutto il congegno automatico delle leggi economiche. […] Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. […] È assalito dagli scrupoli, straziato dai rimorsi, a priori, di sapere in che città di domani, in quale ulteriore società, in quale dissoluzione di tutta una società, in quale miserabile città, in quale decadenza, in quale decadenza di tutto un popolo lasceranno, consegneranno, domani, stanno per lasciare, entro qualche anno, il giorno della morte, quei bambini di cui sono, di cui si sentono così pienamente, così assolutamente responsabili [….] Quindi per loro nulla è indifferente. Niente di quello che succede, niente di storico è per loro indifferente. Soffrono di tutto. Soffrono dappertutto. (C. Péguy, Veronique o Dialogo della storia e dell’anima carnale).