Potrebbe sembrare solo una questione di diritto intertemporale o di transitorietà disattesa o di ultrattività parziale: la scelta del sintagma acconcio spetta ai giuristi, che sono tassonomisti per natura.
Potrebbe sembrare. Se non fosse che il decreto ministeriale di riparto dei punti organico per il 2013 tocca nella carne viva alcune università italiane, anche grandi, specie nel Mezzogiorno, disegnandone un destino di marginalità e di declino.
Il sistema basato sul “punto organico” è un’escogitazione per individuare una modalità fondata su criteri “obiettivi” nel riparto delle risorse: l’attribuzione di una quota adeguata di punti organico consente di ricevere una fetta congrua di Fondo Ordinario di Funzionamento (Ffo). In tempo di crisi, consente almeno di moderare la perdita di professori in servizio, a mano a mano che si creano le vacanze per pensionamento.
Ma l’attribuzione dei punti organico viene fatta dipendere da alcuni parametri, che dovrebbero rivelare “virtù” e “vizi” degli atenei, in modo da poter premiare i virtuosi e sanzionare i viziosi (senza tuttavia dannarli del tutto, secondo alcuni dei nostri normatori e applicatori di norme, ma non secondo coloro, tra questi, che nutrono i sentimenti più estremi).
Tra le virtù riconosciute alle università v’è quella di avere un più basso rapporto tra budget complessivo e spesa per il personale e la più bassa esposizione per fitti passivi. In regime di tagli (e siamo in regime di tagli), l’attribuzione del 20% dei punti organico modera la riduzione, tuttavia sensibile, del turn over. Se questo taglio è riferito a ogni singolo ateneo, non sorge conflitto “territoriale”: e così è stato in un primo momento. Ma per raffrontare “virtuosi” e “viziosi”, occorre che quel 20% non incida dappertutto nello stesso modo, ma sia riferito all’intero “sistema”: in tal modo, gli atenei che si sono mal condotti subiranno tagli più gravosi; quelli che si sono ben condotti potranno conseguire un premio, consistente nel poter assumere un numero di professori pressoché uguale o anche superiore a quello dei pensionati. Così è oggi.
Naturalmente nessuno può seriamente pensare che i richiamati parametri quantitativi, nella loro “stupida” fissità, siano davvero indicazione di “vizio” o di “virtù”. E non si può non considerare il tessuto sociale in cui un’università si colloca e la sua storia istituzionale e la sua dimensione: tutti fattori incidenti su quel rapporto tra spesa complessiva e spesa per il personale, che viene assunto come legge bronzea nel riparto delle risorse. Si pensi solo alla difficoltà in alcuni contesti di aumentare le tasse universitarie, o al peso da attribuire alla consistenza “storica” del personale amministrativo nei grandi atenei, vischiosa e non comprimibile (specie dopo la messa in opera di politiche di “decentramento”, che hanno consentito la moltiplicazione delle sedi universitarie su scala regionale senza conseguire il ridimensionamento delle sedi maggiori), o alla gestione, presente solo in alcuni grandi atenei, di attività sul territorio quale quella sanitaria.
Ecco perché nel 2012, evocata la formula magica dell’incidenza delle spese per il personale sul budget, erano stati stabiliti contestualmente correttivi, per evitare gli effetti paradossali dell’applicazione pedissequa di essa: anzitutto la provvisorietà (limitarne l’applicazione a un anno rendeva il criterio comunque preferibile a un taglio lineare generalizzato); poi la statuizione di un tetto del 50% al “premio”, in termini di turn over dei professori, da riconoscere alle università “virtuose”.
Ma, per il 2013, entrambe le cautele sono venute meno: il meccanismo è stato nuovamente applicato per decisione di mero fatto, senza alcuna proroga formale, e non è stato applicato il tetto. Conseguenza: alcune Università hanno perso quasi il 70% di punti organico, altre ne hanno guadagnati fino a punte di oltre il 200%.
L’irragionevolezza di implicazioni siffatte richiamano a considerare la legittimità delle determinazioni amministrative che a esse conducono.
Valga, a questo proposito, anche una considerazione di sistema: favore e penalizzazione, con i rigidi criteri quantitativi applicati e con la loro stabilizzazione nel tempo, non derivano dalla qualità degli atenei coinvolti né sul piano del servizio didattico né sul piano della connessa capacità formativa né sul piano dell’eccellenza della ricerca.
Non è questione di poco conto, mentre è in atto l’affannosa rincorsa per reggere la competizione internazionale tra sistemi formativi.