LIPSIA – Caro direttore,
un articolo recente della Frankfurter Allgemeine Zeitung, nella pagina dedicata a “Beruf und Chance” (professione e chance), ha colpito la mia attenzione di insegnante, impegnato nella scuola tedesca dal 1993, dapprima nelle elementari, poi nella Hauptschule, scuola di avviamento per gli “ultimi” del sistema scolastico tedesco (a parte quelli che vanno in rami speciali di ricupero) ed ora in un liceo nella Sassonia-Anhalt. Ne scrivo perché mi sembra, dalla distanza, che anche in Italia, mutatis mutandis, vi sia un problema simile.
Ecco il titolo: “Schüler in der Optimierungsfalle”, che tradurrei così: scolari nella trappola della dipendenza dall’optimum. La giornalista, Lisa Becker, riassume, rinviando a diversi istituti di statistica, all’associazione di insegnanti, a studiosi di psicologia e in modo particolare al rinomati studi della Konrad Adenauer Stiftung (KAS) il dibattito in questi termini: “un giovane su 5 ha mal di testa più di una volta alla settimana. Uno su 3 soffre anche di mal di pancia o di mancanza di appetito. La diagnosi: una sistematica pretesa eccessiva, da parte della scuola, sui ragazzi”.
La voce contraria a questa ipotesi è quella del presidente dell’associazione tedesca degli insegnanti, Deutschen Lehrerverbandes (Dl), Josef Kraus: ai ragazzi vengono indottrinati sentimenti di stress da parte dei genitori, che li vogliono tenere nella bambagia, fin da bambini.
Un esperto del fattore stress, Arnold Lohaus di Bielefeld, dice invece (cosa confermata dagli studi della KAS) che una gran parte dei ragazzi del liceo soffre di forme acute di stress, che sono diventate ancor più intense dopo l’introduzione del percorso liceale di 8 anni (G8), invece dei vecchi 9 (il liceo in Germania comincia dopo la quarta classe). Ovviamente Lohaus dice anche che un’esperienza di stress è necessaria per imparare ad affrontare lo stress inevitabile nella nostra società, ma ci sono dei limiti chiari, rintracciabili nella salute fisica e mentale dei ragazzi.
MI ha colpito anche la causa indicata da Lisa Becker, che rinvia ad un’esperta della KAS, Christine Henry-Huthmacher, per questo fenomeno esteso di stress: “il successo dei ragazzi nella scuola ha assunto una posizione dominante, anche come legittimazione della propria educazione” – questo ci fa ricordare certe frasi che,secondo l’articolo, dicono in primo luogo le mamme, del tipo: “domani dobbiamo (!) fare un compito in classe”.
In un altro giornale tedesco, la Suddeutsche Zeitung, è stato di recente presentato un esempio opposto: il caso della totale mancanza di una madre, che al tempo della nascita del figlio era soffriva di dipendenza dal videogioco “Word of warcraft”.
Da questa crisi il figlio ne esce in forza di un progetto pedagogico esperienziale nella natura (Erlebnispädagogik), in cui con una bicicletta, dalla Baviera al Mar Baltico, impara a decidere sulla sua vita da sé, man man che le circostanze incontrate richiedevano delle decisioni. L’esperimento cattura la fantasia, ma rimane un’eccezione. La realtà, soprattutto nella classe borghese tedesca media ed alta, è piuttosto un’identificazione della riuscita scolastica del figlio con la legittimazione della propria educazione.
Credo che l’idea italiana, assai diffusa, in base alla quale il liceo (classico) è la migliore delle scuole possibili trovi, in questo punto, una coincidenza con il dibattito in Germania: l’optimum sarebbe un certo liceo o una certa scuola con cui si vuole legittimare la propria educazione ricevuta o il modello educativo di una persona che stimiamo.
Questa proiezione sui ragazzi di un immagine di un optimum nell’educazione nega la realtà, che è molteplice e in tale molteplicità si manifesta come “dono”.
Nel suo libro, ora pubblicato in italiano, in una traduzione a cura della Casa Balthasar, di Ferdinand Ulrich, “L’inizio come bambino. Per una antropologia filosofica dell’infanzia” (Las, 2013), il grande filosofo tedesco, amico di Hans Urs von Balthasar, fa vedere, in un linguaggio filosofico ontologico preciso, come l’essere è realmente dono, ma lo è in una dimensione di “unità della vita e della morte”, non solo della morte finale, ma delle tanti “morti” che fanno parte della nostra vita: per esempio, la nostra capacità di “lasciar andare” i nostri figli su vie che sono quelle “ottime” o “possibili” per loro, anche se non corrispondono ad un “optimum” per me o ad un presunto optimum dei modelli educativi che ho ricevuto io.
Uno dei pilastri del nostro liceo (CJD-Christophorusschule, Droyssig) è l’attenzione a ragazzi che sono eccellenti come quoziente di intelligenza, ma che rimangono incapaci o hanno grandi difficoltà ad integrarsi nel sistema scolastico tedesco (il fenomeno che nella letteratura specialistica viene chiamato degli underchever). Uno dei risultati di uno studio di Konstanze Szelényi, coordinatrice con la collega Kerstin Zimmer di un lavoro per i ragazzi eccellenti della nostra scuola su modelli alternativi di insegnamento, precisamente su “moduli” preparati dagli insegnanti per due settimane di lezione, che i ragazzi affronteranno da soli o in coppia, è che solo un’attenzione ai processi individuali di insegnamento e di apprendimento permette di fare un lavoro fecondo e di differenziazione scolastica (cfr. “Die Modularbeit an der CJD Christophorusschule Droyssig – eine Förderung von Hochbegabten durch Binnendifferenzierung” (Il lavoro con moduli alla scuola CJD san Cristoforo – un sostegno degli scolari eccellenti per mezzo d’ una differenziazione interna al lavoro scolastico), Diploma – ECHA presentato all’Internationalen Centrum für die Begabungsforschung (ICBF).
Questa attenzione individuale vale non solo per i metodi di insegnamento, ma anche per la scelta di quale scuola o quale università debbano affrontare i nostri figli; ancor di più questa attenzione individuale può anche implicare la domanda radicale se per esempio l’università sia realmente l’unica via per arrivare ad una scelta professionale adatta. Il “rischio educativo” (Luigi Giussani) consiste proprio nel saper fare una proposta educativa che solo la verifica personale potrà accettare come adeguata per la persona. Tutto il resto non è più educazione, ma proiezione dei nostri desideri sul destino di “altri”, anche se questi altri ci stanno particolarmente a cuore come nel caso dei nostri figli.