Caro direttore,
i dati del rapporto Ocse-Pisa presentati settimana scorsa, e ampiamente commentati da questo giornale, ci presentano uno scenario che, lungi dall’essere roseo, è in certi aspetti lontano da quello che i media nazionali amano presentare al pubblico. Infatti emerge un’ampia gamma di risultati positivi che disegnano un trend ascendente nelle conoscenze dei nostri studenti. Pensiamo ai giovani del Triveneto che hanno una media di “performances” in matematica nettamente superiore alla media Ocse. Ma in generale è interessante osservare come dal 2000 in poi vi siano stati concreti e costanti miglioramenti in diversi settori dell’apprendimento che portano i nostri studenti ad avvicinarsi alla media Ocse. Sicuramente nel nostro paese è una pratica poco apprezzata quella di guardare il bicchiere mezzo pieno,  e le considerazioni da me proposte verranno analizzate dal punto di vista opposto per mostrare come i nostri giovani sono poco talentuosi e motivati, ma non credo sia questo il giusto approccio.



Al contrario il dato che emerge dal rapporto e che sarebbe utile mettere a tema riguarda i difetti strutturali della scuola. Per esempio il fatto che “Il 93% degli studenti in Italia frequenta scuole con dirigenti senza potere decisionale in materia di spesa per personale”, o che, sempre per riportare le parole del rapporto “in media, nei Paesi dell’Ocse solo il 24% degli studenti frequenta scuole i cui dirigenti hanno dichiarato che solo le autorità nazionali e regionali dell’istruzione sono competenti per selezionare gli insegnanti in previsione di un’assunzione; in Italia il rapporto è dell’86%”. Questo non per denigrare gli insegnanti italiani ma per sottolineare come spesso il deficit che ci rende al di sotto delle medie internazionali non risiede nella mancanza di talento dei nostri giovani, che mostrano invece di essere in grado di migliorare i loro risultati. Bisognerebbe lasciare più spazio a questo talento, in un modello di autonomia che sia mosso proprio dalla volontà di favorire le potenzialità degli studenti e nel quale non sia lo studente ad adattarsi ad una struttura amministrativa granitica e poco flessibile ma che, al contrario, sia questa ad avere la possibilità (almeno la possibilità normativa) di poter seguire il bisogno e il talento del giovane che ha di fronte.



Numerosi infine saranno i richiami morali agli studenti italiani che hanno il tasso più alto di assenze da scuola, c’è già da immaginarsi gli appelli ai “mascalzoni” che non pensano al loro futuro! Sarebbe invece più efficace porsi il problema del perché uno studente oggi sia meno invogliato ad andare a scuola, del perché di fronte ad una situazione di crisi generale che sicuramente egli percepisce, non gli passi per la testa che forse investire sulle proprie competenze potrebbe essere un buon investimento. 

Forse perché non guarda più alla scuola come un luogo di acquisizione di competenze per il futuro, e in questo senso una valorizzazione delle pratiche di alternanza scuola-lavoro, di esperienza pratica, di complementarietà tra formazione e lavoro potrebbe essere una soluzione. Questo non per arginare il problema tentando di occupare i giovani con il lavoro manuale, ma perché forse loro prima di noi intuiscono che oggi le competenze sono per necessità multidisciplinari, dove in questa multidisciplinarietà rientra anche il sapere pratico, esattamente sullo stesso piano di quello intellettuale. 



Insomma, smettiamo di considerare i giovani come degli “sdraiati” (come titola un libro oggi in cima alle classifiche) quando è la scuola stessa che spesso fornisce il sonnifero.