Il 25 gennaio 2013, a Milano, organizzata dal Centro Culturale di Milano e della Rizzoli, si è svolta la presentazione del libro di Antonio Polito Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, al quale hanno partecipato, oltre all’autore, don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, e Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Pubblichiamo qui di seguito l’intervento di don Carrón.
Ringrazio prima di tutto Antonio Polito per questo invito di cui mi sento veramente onorato.
Il libro che presentiamo oggi è un grido, una provocazione, una domanda: ma dove stiamo portando i nostri figli? Tanti genitori si ritroveranno in questo interrogativo. È una domanda che in non pochi casi diventa preoccupazione, e a volte angoscia, perché molti non sanno da che parte girarsi, dove guardare per uscire dall’impasse in cui a volte si trovano. Questo è un segno palese della confusione che domina il nostro tempo, in cui pure abbiamo visto nascere, crescere, svilupparsi tante cose belle, tante conquiste della scienza, ma alla cosa più cara, i nostri figli, non sappiamo offrire qualcosa di veramente significativo affinché possano orientarsi in mezzo alla confusione in cui si trovano a vivere.
Siamo davanti al libro di un osservatore acuto, che coglie la sfida più grande che la società si trova ad affrontare, cioè la sfida educativa, rispetto alla quale le altre, quella economica, sociale e politica, non sono che conseguenze.
Ma Antonio non identifica solo la sfida, ma anche l’origine di essa: i padri. O, più genericamente, gli adulti – siano essi padri, educatori, maestri o preti -, che non sono stati in grado di offrire un’ipotesi di risposta all’altezza del bisogno dei figli. L’Autore pone la questione in modo tranchant fin dalle prime pagine del libro: «Chi di noi padri […] può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?» (p. 16). Questa è la sfida.
Come si documenta questa abdicazione dei padri alla loro funzione educativa? Sostanzialmente in due modi.
1) I genitori hanno voluto risparmiare ad ogni costo ai loro figli la fatica del vivere. «Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti dei nostri figli, sempre pronti a batterci affinché venga loro spianata la strada verso il nulla [parole forti], perché non c’è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più è un tratto del carattere nazionale […]. Ed è un grande fattore di freno alla crescita non solo economica ma anche psicologica della nazione» (p. 21).
Cioè, invece di lanciarli verso una meta ambiziosa corrispondente al loro bisogno, al loro cuore, anche se la strada è impervia, abbiamo preferito spianare loro la strada perché non dovessero impegnarsi troppo, per evitare la fatica della salita. Invece dello Stay hungry, Stay foolish (restate affamati, restate folli) di Steve Jobs, nel suo famoso discorso all’Università di Stanford, abbiamo preferito il «restate sazi, restate conformisti» (p. 12).
«La colpa è nostra. I veri bamboccioni siamo noi» (p. 23), scrive Polito. Abbiamo perseguito un modello sociale tutto teso a rendere facile la vita ai nostri ragazzi, senza accorgerci che così, in nome dei nostri figli, li abbiamo rovinati. «Affamati non vogliamo che siano nemmeno per un istante. Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento. […] In funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non sempre positive» (pp. 12-13).
Si è vissuto «un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, la paura di lasciarli nuotare con le loro forze il prima possibile. E questa sfiducia loro la sentono, e ne deprime l’autostima» (p. 20). Mi sembrano affermazioni acutissime di come noi, facendo così, diamo un giudizio sulle loro capacità, sulle loro possibilità di essere se stessi, di crescere, di svilupparsi. Non lo diciamo così esplicitamente, ma loro colgono comunque questo giudizio.
In terzo luogo, abbiamo praticato un malefico paternalismo. «Società della pantofola», la chiama Antonio, tutta protesa a preservare i giovani da ogni sforzo.
Mi colpisce la sintonia con quanto diceva don Giussani nel 1992, in una intervista al Corriere della Sera: «Mi spaventa […] l’Italia. […] È una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Questo non può durare. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine. […] Perché è successo tutto questo? Lei lo può dire dopo aver visto crescere tante generazioni. Qual è stato il fattore scatenante di una simile caduta, di un simile peggioramento? A tutte queste generazioni di uomini non è stato proposto niente. Eccetto una cosa: l’apprensione utilitaristica dei padri. Sta parlando del dio denaro? Il dio denaro o una sicurezza di vita agiata, di vita senza rischi. E fatta solamente di cose, senza rischio alcuno. […] Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la vita dei propri figli, o di un dato gruppo di persone, sfondi a un certo punto l’orizzonte. Cioè, se chi ha questo desiderio capisca che, per poterlo realizzare, ha bisogno di un ideale, di una speranza».
I padri pensavano che, risparmiando loro lo sforzo e proteggendoli dal bisogno, stavano facendo il bene dei figli, quando in realtà stavano spianando loro la strada verso il nulla.
Quando questa mentalità vince, il risultato è quello di cui parlava Pietro Citati in un articolo apparso qualche anno fa su la Repubblica e dedicato alla generazione dei giovani d’oggi, dal titolo «Gli eterni adolescenti», in cui faceva un ritratto quasi spietato del risultato che produce la vittoria di questa mentalità. Scriveva Citati: «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. Oggi c’è una continua corsa all’immaturità. Un tempo, […] a tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. […] Conquistare la maturità era una rinuncia […]. [Oggi i giovani] non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia il loro io, […] amano […] l’indecisione! Non dire mai sì e mai no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. […] Non hanno volontà: non desiderano agire […]. Preferiscono restare passivi. […] Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia».
A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di Eugenio Scalfari, il quale sosteneva: «La ferita [in questi giovani] è stata la perdita dell’identità e della memoria» forse perché qualcuno aveva tolto questa identità. È singolare: prima fanno di tutto per fare perdere loro l’identità e poi si lamentano del fatto che hanno perso l’identità. «La ferita è stata il silenzio dei padri troppo impegnati nella conquista del successo e del potere. […] La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. […] Non vedo quella profonda melanconia che c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti dal Lotto e dal Tiziano. […] Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati. […] Eterni bambini. […] La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».
Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi dell’umano, che si può riassumere in questo torpore misterioso, in questa invincibile noia, in questo venir meno dell’umano in cui tante volte ci troviamo quando la mentalità denunciata nel libro stravince.
Questa profonda crisi dell’umano si documenta nella passività di tanti giovani, che sembrano quasi incapaci di interessarsi a qualcosa di veramente significativo, o nello scetticismo di tanti adulti che non mettono davanti a loro qualcosa per cui valga la pena muoversi per uscire da questa situazione. È come se non trovassero degli interessi con cui valesse la pena di coinvolgere fino in fondo la propria umanità. Sembra che niente sia in grado di interessare i giovani fino al punto di metterli in movimento, e allora «l’impegno verso lo studio diviene minimo, e la noia massima», come scrive Massimo Borghesi.
Ma proprio facendo così, i genitori hanno commesso un errore madornale. Dov’è stato ed è l’errore? Nella confusione sulla natura del cuore dell’uomo. Pensiamo di risolvere noi il problema dei ragazzi, invece di sfidarli sulla loro natura. Quella natura originale, che Leopardi documenta in modo insuperabile: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».
A questa natura dell’uomo – che è la natura dei nostri giovani, e la nostra – non si può rispondere soltanto con una proposta facilona che non è in grado di interessare e di risvegliare tutta la capacità dell’io.
2) Questo ci porta al secondo errore denunciato da Antonio Polito, che è riuscito così a identificare l’altra radice dell’impostazione educativa che critica nel suo libro, e su questo mi trova molto d’accordo: l’origine dei problemi è soprattutto culturale. E qual è l’errore?
Quello che «ha fatto di noi dei pessimi genitori è il pensiero del Novecento. La cui grande scoperta è stata l’individuazione di forze superumane, fossero esse psichiche, sociali o biologiche, capaci di togliere dalle spalle dell’uomo la responsabilità delle proprie azioni. Grandi filosofie consolatorie. Come il sistema di pensiero scaturito da Freud, nel quale l’Io razionale e consapevole, la sede della responsabilità individuale, diventa un povero derelitto in balìa di forze più grandi di lui, [gettando] “le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia”. (Valeria Egidi Morpurgo). […] Oppure filosofie come il marxismo, che trasportano sul piano sociale lo stesso meccanismo a responsabilità zero. Ricordate uno dei più celebri assunti? È l’essere sociale che determina la coscienza, non il contrario. Dunque la nostra coscienza è solo un’ancella, che va dove la porta il conflitto di classe. E la liberazione dell’uomo non può che essere il risultato di un processo collettivo che si svolge sopra di noi […]. Ogni responsabilità individuale è finita, tutto è trasferito a processi e movimenti collettivi. Scrive l’antropologo Robert Ardrey nel suo The Social Contract: “Una filosofia che per decenni ci ha indotto a credere che le colpe dell’uomo devono sempre caricarsi sulle spalle di qualcun’altro; che la responsabilità di comportamenti dannosi alla società devono sempre attribuirsi alla società stessa; che gli esseri umani nascono non solo perfettibili ma anche identici, per cui qualsiasi grave conflitto tra di loro va addebitato alla gravità delle condizioni ambientali…”. […] E infine il darwinismo. […] Che spiega tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui. Paura e coraggio, egoismo e altruismo, pigrizia e intraprendenza: niente di ciò che siamo si può più far risalire all’educazione che abbiamo ricevuto, all’esempio che ci è stato offerto, alla cultura in cui abbiamo vissuto. Ma tutto è Natura, tutto ci deriva dai nostri antenati e dagli istinti che si svilupparono nella lotta per la sopravvivenza del più forte» (pp. 26-28).
Non so se capiamo la portata di questo errore: l’uomo, ridotto ai suoi antecedenti biologici e sociologici, diventa un pupazzo, una marionetta in mano alle «forze superumane»; per cui l’io non c’è più, l’io è come un sasso travolto dal torrente di queste forze. L’«io» come realtà personale, autonoma, con capacità di libertà, in grado di porsi come soggetto nella storia e nelle circostanze non c’è più, perché tutto è scaricato su antecedenti di ogni tipo, psichici, sociali o biologici. Polito lo chiama l’oppio della deresponsabilizzazione. Non essendoci l’io, non essendoci la libertà perché tutto è determinato da questi fattori, quale responsabilità è possibile davanti alle sfide?
La conseguenza di questa mentalità è una certa concezione dell’uomo: «Rousseau definì il bambino “un perfetto idiota”. E nel 1890 William James descrisse la vita mentale di un neonato come “una grande, dannata, ronzante confusione”. È a causa di questa presunzione che, convinti di essere in presenza di simpatici “idioti”, parliamo e agiamo davanti a loro come se non ne fossimo ascoltati, e compresi, e giudicati. Non so voi, ma a me invece non è mai riuscito di stare in una stanza con uno dei miei figli fin dall’età di sette-otto mesi senza avvertire distintamente addosso a me i suoi cinque sensi spalancati; senza provare l’inquietante sensazione che dentro quei corpi ancora incapaci di muoversi e di nutrirsi con le loro forze ronzassero perfettamente oliati dei cervelli già funzionanti» (p. 67). Eppure, malgrado tutta la riduzione operata dal pensiero del Novecento, l’esperienza elementare del rapporto con i nostri figli impedisce questa riduzione. Come se avessimo la percezione, perfino sensibile, di come non li possiamo ridurre a quello a cui di solito li riduciamo, cioè ai nostri pensieri.
Continua Polito: «Voi capite bene che se così fosse, allora il nostro comportamento di genitori sarebbe radicalmente sbagliato, e dovrebbe radicalmente cambiare [perché se i ragazzi hanno cervelli funzionanti, qualche cosa deve cambiare]. Non più “povero bimbo, è troppo piccolo per capire” […]. Il bambino capisce, comprende che c’è una cosa giusta e una sbagliata» (p. 68). Provate a commettere una ingiustizia nei suoi confronti e vedrete se capisce! Provate a trattarlo nel modo sbagliato e vedrete se capisce! Altro che ridotto ai fattori antecedenti di tipo biologico, psicologico, eccetera! Se invece di questo riconoscimento della loro originalità, del fatto che hanno cervelli funzionanti, prevale il dominio di questa mentalità, questo annullamento dell’io, si lascia campo libero a quelli che Polito chiama i “cattivi maestri”, che non trovano così alcuna resistenza: «Ci sono in giro altri adulti che fanno danni non minori dei padri. Nel senso che li arrecano a un’intera generazione di figli. Sono i cattivi maestri, intesi nel senso letterale e non metaforico del termine: gente che cioè insegna male, cose sbagliate, metodi approssimativi, idee perniciose. È il folto gruppo di quei reduci del Sessantotto i quali, invece che in politica o in azienda, hanno ottenuto il loro successo nell’accademia o nella comunicazione, e che oggi dagli schermi televisivi, dalle edicole o dalle librerie disegnano davanti agli occhi dei nostri giovani il mondo come è e come sarà. È attraverso le loro parole e le loro immagini che i nostri figli apprendono a sperare o a disperare. Perciò il ruolo di questi padri-guru può essere anche più importante di quello dei padri biologici» (pp. 131-133).
Antonio giunge a un’amara conclusione: «Siamo la prima generazione di padri nella storia ad aver elaborato una complessa e altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli. Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il nostro» (p. 143). E aggiunge: «La nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle aspettative, prima ancora che nell’età anagrafica» (p. 144).
Riducendo l’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici o sociologici, abbiamo tolto all’uomo e ai ragazzi la loro dignità, e questo lo esprimiamo nel modo di guardarli, questo giudizio lo leggono nel modo in cui li trattiamo, molto di più di quanto ce ne rendiamo conto. Ma basta un minimo di rapporto con loro perché scopriamo che l’io c’è. E che c’è nell’io qualcosa di irriducibile a questi fattori: don Giussani la chiamava «esperienza elementare», una esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, di felicità, di pienezza, che è il nocciolo dell’io. E per questo i giovani capiscono, capiscono benissimo, non devono frequentare un corso per vedere quando è ingiusta una modalità di trattarli o quando non vogliamo loro bene o quando non diamo loro tempo. Togliere loro il criterio di giudizio è togliere loro la dignità, perché è come dire: «Tu sei scemo, ti spiego io come stanno le cose!». Ma loro capiscono benissimo che non è così, proprio perché hanno dentro di sé una esperienza elementare, che si esprime come esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, per cui non devono andare ad Harvard a fare un corso sulla giustizia per sapere quando sono trattati ingiustamente! Provate a farlo! Perché i nostri figli, i nostri ragazzi sono spietati su questo. Noi siamo dei dilettanti rispetto alla chiarezza del giudizio che hanno loro sulle cose. Ma noi pensiamo che siano scemi. Invece che differenza, che diversità quando li trattiamo per quello che sono! Ma, come dice il Papa, è successo [in molte persone molto capaci] uno «strano oscuramento del pensiero», quello che è elementare non lo vediamo più. E con questo oscuramento del pensiero riduciamo la loro dignità, la loro capacità di essere, il loro io con tutta la sua possibilità di evolvere e restringiamo allo stesso tempo il nostro concetto di amore, che non è soltanto cortesia e gentilezza, ma è amore nella verità.
Se la situazione è questa, da dove ripartire? Dal «punto infiammato [dell’animo], il locus di tutta la mia coscienza», di cui parlava Cesare Pavese. Da quei cervelli funzionanti, da quel cuore che non può essere ridotto ai fattori antecedenti, il cuore con le sue esigenze e con le sue attese. È questa attesa che deve trovare una riposta adeguata. È intorno a questo punto infiammato che può ruotare una proposta veramente corrispondente all’umano. Ma questo punto infiammato (come abbiamo visto in tante occasioni) è sepolto da un torpore, da una noia: non trovando chi sfida i giovani con un rapporto all’altezza della loro esigenza (che spesso si cerca di coprire con tante distrazioni), quel punto rimane sepolto.
La questione, allora, è chi è in grado di risvegliare il punto infiammato, l’io dei giovani; ma anche quello degli adulti. Questa è la sfida che abbiamo tutti davanti, la nostra generazione e le istituzioni: la scuola, la famiglia, la Chiesa, i partiti, gli imprenditori, tutti.
Per risvegliare l’io dal suo torpore, dalla noia che sembra invincibile, non basta una lezione o soltanto un richiamo etico (che può essere utile), una predica; occorre un adulto che con la sua vita sia in grado di fare interessare il giovane alla sua esistenza, al suo destino. Ma è difficile trovare adulti che non siano scettici; quante volte mi trovo a dialogare con ragazzi in università i cui genitori, davanti al loro impeto ideale, dicono: «No, la vita ti sistemerà pian piano».
È per questo che solo un testimone (diceva Paolo VI che abbiamo più bisogno di testimoni che di maestri), per cui chi lo incontra non possa sottrarsi al suo fascino, alla sfida che la sua presenza introduce nella vita, può risvegliare questo punto infiammato, questa esigenza nascosta. Uno che incarni un modo di vita in grado di attrarre il cuore, di sfidare la ragione, di mettere in moto la libertà. Insomma, occorre una proposta vivente.
Un testimone o, con una parola che oggi non è politicamente corretto usare, ma se la svuotiamo delle connotazioni con cui a volte la percepiamo e se la diciamo nel suo senso originale risulta decisiva, un’autorità, cioè qualcuno che mi fa crescere, che mi genera con la sua presenza. Occorre una autorità, una presenza che sfidi il «punto infiammato» per lanciarmi verso quella «meta impervia» a cui io, per la mia struttura umana, sono chiamato.
Scriveva don Giussani: «L’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, stupore, rispetto. C’è in essa un’attrattiva inevitabile, e in noi una inevitabile soggezione. L’esperienza dell’autorità richiama infatti l’esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi “discepoli”. […] Per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative [che oggi dobbiamo affrontare] dell’adolescenza non basta proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre [allo stesso tempo] suscitare [nei giovani] nell’adolescente [quel] personale impegno con la propria origine; [con loro stessi, perché senza questo non saranno loro stessi; e per questo non si può evitare la fatica]; occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. [Proposta di una ipotesi di significato da sottomettere alla verifica dei figli, della sua pertinenza alla vita, della sua capacità di rispondere alle sfide della vita. Senza questa educazione alla verifica di una proposta, non diventerà mai loro e quindi correranno il rischio di perdersi] La vera educazione deve essere un’educazione alla critica». La critica è il paragone di quello che ci viene proposto con i desideri del suo cuore: «Il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. E il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. […] Abbiamo avuto troppa paura di questa critica», di questa verifica, non abbiamo rischiato per poter generare un soggetto autonomo.
Continuava don Giussani: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l’ambiente [le circostanze]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di “far da sé” di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l’adolescente all’incontro personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto [altrimenti il risultato sarà che non cresce]. L’equilibrio dell’educatore svela qui la sua definitiva importanza. L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo rappresenta per l’intelligenza e il cuore − e anche per l’amor proprio − dell’educatore un “rischio”. D’altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte le cose; la sua libertà cioè “diviene”. […] L’esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo rappresenta l’avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una direttiva che l’educazione deve tenere presente. […] Una educazione che accetti con vigilanza il rischio della libertà dell’adolescente è reale sorgente di fedeltà e di devozione cosciente all’ipotesi proposta e a chi la propone. La figura del “maestro”, proprio per questa discrezione e rispetto, in un certo vero senso si ritira dietro la figura dominatrice della Verità Unica cui si ispira; il suo insegnamento e la sua direttiva diventano dono di testimonianza, e proprio per questo si iscrive nella memoria del discepolo con una simpatia acuta e sincera, indipendente − nel suo livello più profondo − dalle stesse sue doti. Per cui abbiamo una gratitudine e un legame ineliminabile al maestro, e pure una convinzione indipendentemente da esso».
Il processo educativo non ha come scopo quello di “convincere” l’altro di ciò in cui crediamo noi − questo sarebbe un plagio −, perché al centro ci sono due libertà in rapporto tra di loro. La libertà si muove a causa dell’attrattiva del reale, perché il cuore dell’uomo è assetato della verità; ciascuno cerca ciò che corrisponde alle sue esigenze originali di bene, di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità, che sono destate da tutto ciò che accade. L’educazione è, perciò, un invito alla libertà dell’uomo, per iniziare un cammino alla scoperta della verità delle cose. Se questo non accade, l’affezione, che pure le cose destano, prima o poi viene meno, e la noia vince, perché solo il vero ha la forza per permanere nel tempo. La dinamica della libertà non è arbitraria, non è un fare ciò che pare e piace, perché un uomo è veramente libero quando riconosce e aderisce al significato della realtà; senza un significato, infatti, mancherebbe la ragione adeguata per vivere.
L’educazione è una grande sfida per il cuore dell’uomo, senza di essa è impossibile lo sviluppo della persona, come ragione e libertà. Tanto è vero che quando i giovani sono sfidati nella loro ragione e libertà, si dimostrano entusiasti di partecipare a questa avventura; il problema è che, purtroppo, non trovano molti adulti che li sfidino e per questo decadono.
Vorrei terminare con un testo di Rabindranath Tagore, che dice tutto l’amore che un padre deve avere; quando questo amore c’è, la persona lo riconosce perché gli lascia lo spazio per crescere: «In questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinto a loro. / Il tuo amore è più grande del loro, / eppure mi lasci libero».
È solo l’amore che rende liberi e che lascia spazio alla libertà, per crescere. Questa è sfida che noi adulti abbiamo il compito di accettare nei confronti dei giovani.
Grazie.
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