“Bocciare il merito: la scuola non cambia mai”. Non nascondo che quando ieri mattina mi è capitato sulla cattedra il Corriere della Sera (potenza del “quotidiano nelle classi”, e poi stavamo facendo una verifica…) quel titolo in prima pagina mi ha incuriosito. 

Di scuola non si parla mai. Seriamente intendo. Qualche notizia di cronaca, salace o assurda, forse ogni tanto. Oppure, altrettanto raramente, qualche pistolotto moraleggiante su civismo e buoni sentimenti. Ecco perché vedere una grande firma del “Corrierone” come Gian Antonio Stella occuparsi di scuola è di per sé una notizia. 



Ho letto. E mi sono stupito. Non si parlava di bambini lasciati fuori di mensa perché le famiglie non pagano, di bulli nelle classi, di progetti fantasmagorici di classi nella rete o di altre amenità. Si parlava di un problema serio, centrale. Di un architrave del sistema scolastico. Una di quelle cose di cui normalmente i “non addetti ai lavori” ignorano non dico l’importanza, ma addirittura l’esistenza. 



Si parlava di come la scuola abilita i suoi insegnanti. Lo si faceva partendo da una notizia di cronaca politica (il Parlamento discute in questi giorni dell’introduzione del cosiddetto “Tfa speciale”) ma, e questa è una novità, con l’attenzione dovuta a quelle questioni da cui dipende il futuro del Paese.

Stella lo ha fatto – e questo a differenza di quanto detto sopra non stupisce – a partire da una tesi che è lecito aspettarsi dall’autore de La Casta: e cioè che si sta approntando il solito inciucio all’italiana, in cui precari senz’arte né parte avranno una scappatoia – la solita sanatoria, insomma – per accedere in ragione dell’anzianità di servizio a un concorso dal quale la loro ignoranza li avrebbe esclusi. Ne segue una guerra tra poveri (insegnanti ammessi al Tfa ordinario in forza delle loro competenze disciplinari vs precari che perderebbero il loro posto nelle infinite liste di collocamento di cui è piena la Pubblica istruzione), la contrapposizione tra forze politiche in parlamento (partiti seri vs populisti), etc.



Ma non c’era solo questo, nell’articolo di Gian Antonio Stella ieri mattina sul Corriere della Sera. C’era come uno squarcio di verità sulla scuola italiana, concentrato nell’ultima frase: “E in cui i diritti fondamentali da difendere sembrano comunque essere ancora quelli dei professori e solo dopo (molto dopo) quelli degli studenti”.

Ha ragione. Ma cosa ci ha reso così? Cosa ha trasformato la scuola in un ingranaggio perverso di collocamento di proletariato intellettuale, completamente dimentico del suo ruolo?

“Merito bocciato, sanatoria promossa. Così va la scuola dal 1859”. È strano a dirsi, ma stavolta il titolista ha colto meglio il senso delle cose del giornalista. La scuola va così dal 1859, da quando cioè si è cominciato a far coincidere la Pubblica istruzione con l’istruzione gestita, governata e amministrata direttamente dallo Stato. 

Ogni concorso (oggi piú che mai) chiede la sua sanatoria, per evitare i ricorsi, i blocchi, le proteste. La scuola-amministrazione non è più in grado di gestire nemmeno sé stessa (il 2012 è l’anno di incredibili débacles dal punto di vista tecnico nella gestione dei concorsi, cosa che la Pubblica amministrazione dovrebbe saper fare).

I professori esercitano, per le leggi patrie e per i contratti, non una professione, ma una funzione. Funzionari, dunque e non professionisti. 

Paradossalmente il Tfa (anche il Tfa speciale, che non è né un concorso né una sanatoria, ma la possibilità di abilitarsi per i docenti che non hanno potuto accedere agli ultimi percorsi abilitanti della Ssis), con tutti i suoi limiti, è un punto di novità estremamente importante. Per la prima volta da secoli (almeno dal 1859…) si separa l’abilitazione a una professione (che riguarda tutta l’istruzione pubblica, statale o paritaria) dal reclutamento nella scuola statale. 

Questo è il punto di svolta per la riforma della scuola, che Stella riconosce essere fondamentale per il Paese: poter avere professionisti qualificati non solo nel merito delle proprie materie che vengono assunti non attraverso il meccanismo dei concorsi e delle liste (che genera precariato in enormi quantità) ma attraverso la responsabilizzazione dei singoli istituti autonomi e dei loro dirigenti, per il raggiungimento degli obiettivi educativi, culturali e formativi da loro posti e comunicati alle famiglie.

Insegnanti professionisti e scuole autonome: forse questa è l’unica strada per uscire dal loop di concorsi, ricorsi, condoni, listoni, in cui ci siamo andati a cacciare sempre più dal 1859. E forse per cominciare a riconoscere un po’ di più i diritti degli studenti ad avere un contesto educativo e formativo coerente e professionale (e non semplicemente un servizio pubblico gestito burocraticamente) insieme a quelli dei docenti.

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