Jan Fleischhauer, il famoso columnist dello Spiegel online ha ragione nella sua analisi sulla nuova scuola della sinistra rosso-verde tedesca (cfr. Andrea Tarquini, “Basta bocciature, costano troppo”. La nuova scuola della sinistra tedesca, Repubblica, 16 febbraio 2012). La tesi che le bocciature costano troppo e sono un’umiliazione personale, nasconde semplicemente l’incapacità della borghesia rosso-verde di riflettere i propri insuccessi a livello di educazioni dei figli, che per l’appunto a volte non hanno successo nel sistema scolastico tedesco, che è ancora relativamente severo, come fa osservare Jan Fleischhauer: «Sempre meno gente nella nostra borghesia riesce ad accettare che la propria prole non brilli per intelligenza o volontà di apprendere, e ogni insegnante conosce i guai cui va incontro se rifiuta di dare l’assenso per l’accesso al liceo al figlio di un architetto» (traduzione citata in Andrea Tarquini, ibidem).



Vorrei, prendendo lo spunto dell’analisi di Jan Fleischhauer, approfondirne la critica. Lo si può fare solamente riflettendo sulle linee fondamentali della pedagogia rosso-verde tedesca. Il termine che spiega tutto è quello dell’inclusione (Inklusion), con cui si cerca di superare il canone delle materie scolastiche, sostituendole con dei temi (per esempio invece che “biologia” il tema “acqua”, che poi dovrà essere trattato a livello interdisciplinare), in cui, approfondendo la questione, si traspone a livello pedagogico scolastico ciò che nel discorso filosofico è la filosofia dei generi. 



Il nemico ultimo di questo sistema di inclusione è la famiglia intesa in senso giusnaturalistico, come una comunità stabile d’amore di un un uomo ed una donna, aperta alla procreazione di figli. Con un’educazione sessuale organizzata a tappeto, già a partire dalle scuole elementari (per esempio ultimamente a Berlino), la pedagogia rosso-verde tedesca cerca di far passare, come unica forma pedagogica politicamente corretta, la propria filosofia pedagogica dei generi: per esempio, per essa “maschio” e “femmina” sono per l’appunto dei “generi”, degli “stili” – così io, come maschio, posso avere uno stile femminile – e non un’identificazione naturale dell’essere uomo, come maschio e femmina (Cfr. Gen 1, 27).



A livello politico questo di tipo di impostazione sta avendo un certo successo in Europa, come si può vedere anche dalla decisione del parlamento francese di riconoscere come legame giuridicamente valido il matrimonio di omosessuali. A livello di esperienza educativa i fautori di questo tipo di politica si scontrano con la realtà, che spesso vede i propri figli non avere successo nel sistema scolastico (questo ovviamente non vuol dire che per esempio una famiglia cattolica a priori educhi i propri figli, in questo senso, con più successo). Ma è vero che senza un lavoro all’interno della famiglia – lo vedo nell’energia che mia moglie, che pur è insegnante, investe nell’educazione dei nostri due figli – un figlio normalmente dotato fa fatica ad assolvere ciò che un liceo in Germania (ancora) pretende.

Non si tratta per me di difendere acriticamente un sistema meritocratico; ovviamente come filosofo cattolico, impegnato nel mondo dell’insegnamento in Germania da un ventennio, cerco di avere uno “sguardo di simpatia” per i ragazzi che mi sono affidati ed ho nella fede uno sguardo di attenzione per i deboli, ma so, a partire da una comprensione dell’esperienza, che l’egualitarismo non corrisponde alla realtà, che esso contraddice l’esperienza, come ha detto di recente anche Robert Spaemann, in un intervista appena uscita in italiano: “Tanto per dire, tutto ciò che una persona dotata riesce a raggiungere può essere anche raggiunto da una persona meno dotata grazie ad una maggiore applicazione. (…) Questo non è vero, (…) questo contraddice semplicemente l’esperienza” (Robert Spaemann, Testimone della verità, Marcianum Press, 2012, 31). 

Il che ovviamente non significa che non sia possibile “compensare una capacità mediocre. Con la ripetuta applicazione e lo sforzo si può arrivare a prestazioni notevoli” (31-32). Ma questo sforzo, senza la famiglia, è semplicemente un’utopia (nel senso debole del termine). Pensare di risolvere i problemi scolastici evitando le bocciature, a parte che abbiamo qui a che fare con una riforma “interrotta” − ha ragione Jan Fleischhauer quando si chiede perché non andare più a fondo, se si vuole realmente andare in questa via, eliminando ogni forma di valutazione e così anche le pagelle –, è un segno di totale mancanza di realismo.

Queste poche righe siano prese per quello che per l’appunto sono: un tentativo veloce di riflettere su un’intuizione, sorta in me leggendo del tentativo della sinistra tedesca di riformare la scuola nella bassa Sassonia, dopo la vincita politica della Spd e dei “Grüne”. Per essere ulteriormente approfondite dovrebbero essere documentate più precisamente, sia a livello statistico che di riflessione pedagogica. Esse però non nascono da un’intuizione astratta, ma da un lavoro decennale nel sistema scolastico tedesco, in cui si riflettono diverse forme contraddittorie e burocratiche, che non sono al servizio né di studenti né di giovani insegnanti – in questo ha ragione la sinistra tedesca a mettere il dito sulla piaga di un certo irrigidimento burocratico −, in cui però vive ancora un’ideale scolastico di universalità del sapere, che va certamente difeso, ma che senza l’apporto universale concreto della famiglia, non può permettere la valorizzazione della persona singola, che deve essere l’idealità ultima di ogni “rischio educativo” (Luigi Giussani). 

Per questo scopo non serve una pedagogia astratta dell’inclusione, ma solamente una proposta educativa, che permetta alla persona umana, maschio e femmina, di adire a quella logica ultima dell’essere che secondo il filosofo di Ratisbona Ferdinand Ulrich, è l’amore gratuito.